A un certo punto della sua vita Ezio Bosso aveva quasi rescisso il suo legame d’origine con Torino, la sua città. Da tempo aveva scelto di abbracciare Bologna eleggendola a prima casa. Del luogo in cui era nato nutriva sentimenti in contrasto e una volta si era lasciato sfuggire che «Torino non voleva più bene a Ezio». Anche se poi aveva aggiunto che «i torinesi invece sì, gli volevano ancora bene». Nelle questioni d’amore, in fondo, non è inusuale che i sentimenti possano cambiare all’improvviso: ma è il segreto per continuare a coltivarli.

Ezio, 49 anni, è morto di cancro la scorsa settimana, lasciando una scia di tristezza. Nel 2011 si era sottoposto a un intervento chirurgico per l’a­sportazione di una neoplasia cerebrale, da lì la diagnosi della sindrome autoimmune neuropatica che lo avrebbe costretto sulla sedia a rotelle compromettendo poi l’uso delle mani, costringendolo a interrompere la sua attività di pianista. Bosso, comunque, aveva già fatto in tempo a lasciare un segno riconoscibile non solo nella musica ma anche e soprattutto nell’immaginario collettivo, grazie alla sua empatia, alla capacità di avvicinare classica a pop.

Aveva cominciato a suonare negli Statuto, il gruppo mod torinese fondato assieme a Oscar Giammarinaro ai tempi del Conservatorio. Per un anno e mezzo Bosso partecipò anche ai tour della band tra Firenze, Genova e Milano. Usava lo pseudonimo di Xico che aveva mutuato dallo stesso Oscar, leader del gruppo: richiamava l’immagine di Chico, il paffuto assistente di Zagor, eroe dei fumetti. La genialità musicale di Bosso non poteva però essere contenuta nello spartito di un gruppo musicale, specie se ispirato a un particolare genere. Così le strade si separarono.

Iniziò a girare il mondo. A Torino tornava puntualmente per qualche concerto. Ad esempio nel 2017 alle Ogr per una “lezione di piano e orchestra” con il palco al centro della Sala Fucine, oppure nel 2019 all’evento Flowers, quando portò la classica in un festival rock. I biglietti andarono presto esauriti, arrivarono spettatori anche da fuori Italia. Al Teatro Regio era passato per l’ultima volta nel 2018 e ancora una volta aveva stupito tutti con il matinée aperto al pubblico per le prove generali, convinto che il teatro della città dovesse essere, appunto, a disposizione dei cittadini. Fu ovviamente un successo e lui, in piena euforia, aveva spiegato la sinfonia “Dal mondo nuovo” di Dvorak. Sognava in effetti un nuovo mondo, dove fosse normale guardare le persone negli occhi. Di lui raccontano che ci metteva sempre la stessa passione, davanti a un teatro con mille spettatori come a una “masterclass” per 15 studenti (lo aveva fatto a Palazzo Barolo). Stava progettando, con gli amici torinesi, un tour nei luoghi più difficili tra quelli coperti dalla Croce Rossa. Era un’idea che lo entusiasmava, come al solito.

Gli piaceva percorrere strade diverse, anche contrastanti. Da giovane, dopo gli studi, aveva sperimentato il jazz prima di perfezionarsi come compositore. Divenne celebre ovunque quando iniziò a scrivere colonne sonore dei film, sfiorando anche il premio Oscar per i suoi lavori con il regista Gabriele Salvatores. All’apice della carriera, salì anche sul palcoscenico di Sanremo, dopo aver firmato tre sinfonie e composto diverse opere strumentali per orchestra e musica da camera. Era diventato uno dei compositori più amati al mondo.
A Torino tornava anche semplicemente per ritrovare gli amici di un tempo. O magari per dotarsi di una nuova carrozzina, dopo che il bastone non era più sufficiente ad accompagnarlo nei suoi viaggi. Ora gli intitoleranno un angolo di città. Bosso, la musica
che non muore mai.