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Omaggio a Germano Celant

Un affermato critico che Ha teorizzato, alla fine degli anni ‘60, l’arte povera, presentata in scritti ed interessanti rassegne artistiche. È stato curatore della Biennale di Venezia e dal 1989, “senior curator” al “Guggenheim Museum” di New York

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Il Covid-19 non ha risparmiato neanche Germano Celant, uno dei più importanti critici d’arte italiani, il “guru” dell’“Arte povera”, il movimento italiano di caratura e notorietà internazionale che, propugnando l’uso di ogni tipo di materiale “povero”, dal ferro al vetro al legno, costituiva anche una implicita critica al sistema mercantile e dei consumi. Sotto la sua ala il critico raggruppò figure eterogenee e molto diverse tra loro come Giuseppe Penone, Mario e Marisa Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giulio Paolini.
Celant, scomparso il 29 aprile scorso all’età di 80 anni dopo più di un mese di lotta al “San Raffaele” di Milano, aveva contratto il virus durante un viaggio di lavoro negli Stati Uniti ed è mancato a causa delle complicazioni dovute allo stesso e al diabete. Nato a Genova, il critico d’arte, manager, organizzatore e comunicatore di eventi culturali nella società dello spettacolo, ebbe in sorte di animare la smania di protagonismo artistico della generazione del ’68. Sostenuto in questo dalla voglia di casa Agnelli di spostare a Torino il baricentro del sistema italiano dell’arte, con tutte le implicazioni di mercato che questo comportava, agì sulla scia del modello della “Pop art” e del successo della “Conceptual art” americane che diffuse in tutto il mondo. Nel suo lungo percorso operativo il ligure ha fatto sì che ogni singolo artista diventasse un comprimario nel coro di successo, uno strapagato da pochi collezionisti e musealizzato nel sistema della cosiddetta “arte contemporanea”, nozione fantasma o miraggio mass-mediatico di cui tanti avrebbero voluto, e vorrebbero, entrare a far parte. Nato in una famiglia non particolarmente abbiente, Celant delineò la teoria e la fisionomia del movimento “Arte povera” attraverso mostre e scritti come “Conceptual art”, “Arte povera” e “Land art” del 1970 e, dopo la mostra “Off media”, svoltasi a Bari nel 1977, iniziò a collaborare con il museo “Guggenheim” di New York, del quale divenne in seguito “senior curator”. Sempre al “Guggenheim” allestì, nel 1994, la mostra “Italian metamorphosis 1943-1968”, tentando di avvicinare l’arte italiana alla cultura americana. Intendimento col quale voleva internazionalizzare l’arte italiana e che aveva già caratterizzato le mostre al Centre Pompidou di Parigi, a Londra ed a Palazzo Grassi a Venezia. Nel 1996 curò la prima edizione della Biennale di Firenze Arte e Moda, evidenziando un concetto di arte in costante evoluzione. Nel 1997 venne nominato direttore della 47esima Biennale d’arte di Venezia e, dopo aver realizzato a Genova la grande mostra “Arti & Architettura” del 2004, si ritrovò direttore artistico della Fondazione Prada a Milano, per la quale concepì e curò più di quaranta progetti espositivi. In seguito assunse il ruolo di soprintendente artistico e scientifico della stessa nonché di curatore della Fondazione Emilio Vedova a Venezia organizzando inoltre la mostra “Art & food” alla Triennale di Milano in occasione di Expo 2015. Collaboratore di note riviste, personaggio poliedrico, manovratore eccellente di un formidabile complesso estetico-finanziario che ha incasellato l’attività degli artisti italiani e non italiani nel “turn-over” del ciclo post-industriale di fine ’900 Germano Celant, per quanto rinomato, non è rimbalzato agli onori del riconoscimento pubblico che parrebbe avere meritato e pochi o nulli sono stati i commenti di rilievo sulla sua dipartita.
Del resto, in Italia, vennero ricordati similmente Venturi, Longhi, Brandi, Ragghianti, Emilio Villa, Russoli, Maltese, Carluccio, Testori, Menna, Dorfles, De Micheli e molti altri grandi critici d’arte e curatori. Forse perché ebbero tutti il difetto di non appartenere allo “star system” della cultura “di pancia”.

BaNNER
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