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«Diffondiamo la bellezza e la gioia della fede»

Don Derio Olivero, originario del Fossanese e vescovo di Pinerolo, ha rischiato la vita per il Covid-19, uscendone rafforzato nello spirito

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Nelle passate settimane si è parlato molto del vescovo di Pi­ne­rolo, monsignor Oli­vero; Don Derio, come in tanti lo chiamano ancora a Fos­sano, do­ve ha guidato la pastorale giovanile, per poi di­ventare parroco e vicario generale. Po­sitivo al Covid-19, il presule, 59 anni, nativo di Roata Chiusani,è stato a lungo tra la vita e la morte a causa del coronavirus. Questo ha reso la sua sto­ria appetibile an­che agli occhi dei media nazionali, ma l’approccio alla fede e alla vita che lo caratterizza da sempre fanno di lui la persona giusta con cui parlare della Chiesa al giorno d’oggi.

Don Derio, adesso come sta?
«La ripresa è lunga, servono tre o quattro mesi per tornare in forma. Spesso sono stanco e mi mancano le forze. Ma sto me­glio, domenica ho celebrato una messa in mon­tagna».

Una persona religiosa come lei che rapporto ha avuto con questo momento che l’ha seriamente avvicinata alla fine della vita?
«Se a gennaio mi avesse fatto la stessa domanda avrei risposto: credo profondamente in Dio e nella vita che ci attende dopo, ma della morte ho paura. In­vece quando ero certo che non sarei sopravvissuto, ho avvertito un’estrema serenità che ha stupito pure me. Mi sentivo in pace anche sapendo che stavo morendo. Di certo è merito della mia profonda fede in Dio, ma la vicinanza di tantissime persone che stavano pregando per me è stata fondamentale. Questo affetto mi ha dato una forza che io, di mio, non avrei.

Non è un controsenso per un uomo di fede a­vere paura della morte?
«(Ride, ndr). Le spiego con una metafora legata alla montagna. Quando parte per scalare il Monviso, sa che arriverà in cima e la vista sarà meravigliosa, ma non per questo alcuni passaggi saranno meno impegnativi o non ci saranno pareti che la intimoriranno. Della morte in sé, del passaggio prima di vedere la cima, non sappiamo nulla, per questo ci spaventa affrontarla. Temiamo l’ignoto. La morte è sempre tra­gica perché ci strappa da dove siamo, da quello che abbiamo conosciuto fino ad allora, non bisogna vergognarsi ad ammettere di temerla.

Che cosa abbiamo imparato dalla pandemia?
«Ci siamo riappropriati di due concetti che avevamo perso: l’incertezza e la tragicità. Pen­savamo di essere invincibili e la precarietà tipica dell’essere umano era stata dimenticata dalla nostra cultura fatta di scienza, efficienza, medicina all’a­vanguardia. E all’improvviso la morte si è trasformata in una presenza tragica e costante nelle nostre vite mentre per la società moderna occidentale era considerata un tabù. Nei secoli scorsi era il sesso, ora è la morte quello di cui non si può parlare. Siamo stati messi di fronte alla realtà: siamo mortali e fragili. Da qui la necessità di badare all’essenziale e la domanda che ognuno do­vrebbe porsi: in che modo sto vivendo e quali strumenti ho scelto di avere a mia disposizione per affrontare le sfide e le difficoltà?»

Dal titolo della sua lettera pastorale hanno preso il nome le sue video lezioni su YouTube “Vuoi un caffè?” che è diventato un ap­puntamento per parlare ai fe­deli di fede, relazioni e arte. U­sare strumenti tecnologici e nuo­vi linguaggi salverà la Chiesa di domani?
«Credo di sì. Le parole sono diventate logore, ne servono di nuove. Non posso indossare og­gi una giacca di quando ero ragazzino; stonerebbe. Bisogna mettere in conto la modernità e comprendere che la fede che non sta a lato della vita ma dentro la sua essenza stessa. Pos­siamo prendere spun­to dalla grande comunicatività del Pa­pa, dai suoi gesti, che arrivano diretti a tutti. I giovani hanno l’impressione che credere in Dio sia qualcosa di superfluo, inutile. Il compito della Chiesa è quello di trasmettere loro la gioia legata alla fede, le buone notizie che troviamo nel Van­gelo. Credere è capire la ri­le­vanza che Dio ha per me tutti i giorni e come influenza i miei momenti di gioia, di dolore, di festa, gli affetti, la morte. La vita è fatta di questa manciata di cose, niente di astratto.

Lei parla di gioia ma nella narrazione cristiana si insiste spesso sul peccato e sul senso di colpa. Non sarebbe ora di alleggerire?
«È vero, nei secoli c’è stata una tendenza ad accentuare il concetto di peccato. Ma se ci pensiamo bene nel primo dei miracoli, quindi quello fondamentale, troviamo Gesù in un contesto di gioia che cambia l’acqua in vino, simbolo di festa su una tavola. Vede? Gesù compie un miracolo per aprire una festa, mica per spegnerla. È questo che dovremmo imparare noi tutti a cercare quando leggiamo le scritture e andiamo a Messa e anche noi parroci mentre prepariamo la predica: dov’è la bella notizia di oggi?».

Altre religioni come quelle protestanti sono più propense ad esaltare il lato entusiastico del­l’essere fedeli. Cosa ne pensa?
«Alcune chiese storiche protestanti come i pentecostali sono più frizzanti nelle loro esternazioni e nei loro riti. Alcuni cristiani guardano con sospetto alle religioni più carismatiche e scenografiche, ma forse do­vremmo chiederci invece: quanta gioia riusciamo a trasmettere noi ai fedeli? Siamo in grandi di raccontare con entusiasmo le parole di Gesù? Anche nella vita da fedeli è utile sempre domandarsi: cosa mi manca, cosa posso fare meglio? Ma anche quale bella notizia porto oggi a casa dal Vangelo? Dalla Messa si do­vreb­be uscire con la consapevolezza che il Signore è innamorato pazzo di ognuno di noi. Vivere con entusiasmo l’eucarestia come un dono immenso, come quando chi ci ama ci offre un regalo che ci lascia senza fiato e noi non sappiamo cosa dire se non “ma è troppo…”».

Come riassumerebbe il suo modo di vivere la propria missione di fede?
«Le cito la frase di un teologo svizzero Hans Urs von Bal­thasar che recita “non il vero, non il buono ma solo il bello vale”. Significa che bisogna impegnarsi a trasmettere la bellezza delle fede. La verità e la bontà degli insegnamenti delle Scritture sono imprescindibili ma non bastano; perché arrivino ed entrino nei cuori bisogna che portino con sé la bellezza. Nostro compito non è solo la difesa della morale e l’esposizione dei precetti ma soprattutto il comunicare la vera gioia di essere credenti. Il dovere in sé non è attraente se non comprendo i benefici im­mensi che la mia vita ne trarrà. Bisogna mostrare la luminosità della fede, questa sì ha un’attrattiva ad ogni età. Alla fine le regole sono soltanto due: ama Dio e ama il prossimo. Se­guendo queste la bellezza colonizzerà pian piano tutta la nostra vita».

Quali concetti rappresentano la sua personale filosofia di vi­ta?
«Dire due concetti principali. Il primo è “C’è una speranza sempre”. La fede profonda che ho in Dio mi aiuta a pensare che c’è una luce anche nelle situazioni più disperate mentre nella mia esperienza umana l’ho toccato con mano con la malattia, sono stato ad un passo dalla morte eppure domenica ho celebrato la messa in montagna. Il secondo è questo: “Non è ciò che ti capita ma come reagisci a quello che ti capita che definisce la tua vita”. Le faccio un esempio. Se organizziamo una gita in montagna e quel giorno piove abbiamo due alternative: possiamo restare a casa a lamentarci oppure andare insieme a visitare una bella mostra d’arte. La pioggia non la fermi. E neanche la pandemia. Ma puoi trovare soluzioni, idee, insegnamenti.

Se non si fosse fatto prete?
«Da ragazzo avrei voluto fare il chirurgo. Ma con il senno di poi direi che sarei stato una buona guida alpina. Mi piacciono la montagna, le scalate e anche le pareti insidiose. Ma soprattutto amo accompagnare i miei gruppi fino alla cima».

BaNNER
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