La fase della “condotta”, nell’ambito della criminologia, parte dal presupposto che l’investigatore criminologo svolga le specifiche attività con prudenza ed equilibrio, organizzando al contempo il lavoro tramite una adeguata distribuzione delle varie mansioni. Questo perché la scena di un crimine non è unicamente composta da elementi materiali quali, ad esempio, tracce di sangue, impronte e arma del delitto, ma comprende anche le “parti” che si identificano solitamente nell’autore, nella vittima e nel testimone del crimine commesso. Coloro che sono chiamati a coordinare operativamente le indagini devono essere in grado di osservare ben oltre l’aspetto fisico, comprendendo cioè che cosa si celi dietro alle tre denominazioni convenzionali di autore, vittima e testimone. Quello che si nasconde dietro il reato in sé, deve essere colto e, in seguito, compreso da chi interviene sulla scena “criminis”. Il crimine può essere legato a motivazioni svariate: socio-culturali, religiose, ideologiche, superstiziose o a questioni altamente patologiche. Quindi, chi opera in questo àmbito ha l’onere di stabilire le eventuali correlazioni tra il comportamento oggetto della costruzione di una verità processuale e una verità clinica. Queste prime fasi spesso diventano il cuore dell’investigazione; il processo svolto nella fase dibattimentale getta le fondamenta, ogni indizio viene analizzato in relazione al tipo di reato commesso. Non si può preventivamente adottare un “vademecum investigativo” se non si conosce il proprio “avversario”, in quanto la conoscenza del “terreno” sul quale si va a operare diventa il primo passo verso l’individuazione della verità storica e non solo di quella processuale. Ecco perché un operatore che si approccia all’attività investigativa deve possedere la conoscenza globale delle attività che possono (e devono) essere dispiegate per ricercare ogni utile elemento.
Articolo a cura di Biagio Fabrizio Carillo