Da sempre protagonista del giornalismo dedicato al mondo della televisione, ne ha accompagnato (scrivendo su La Stampa) la grande espansione e il recente ridimensionamento raccontando personaggi, storie e novità. Puntualmente con garbo e passione, con uno stile inconfondibile. Alessandra Comazzi è stata ed è ancora un importante punto di riferimento per tutto ciò che ruota attorno al mondo dello spettacolo.
Qual è lo stato di salute della televisione oggi?
«Non certo ottimale, la tv ha subito in questi anni gli effetti della rivoluzione digitale, come del resto tutti i media. Più o meno il cambiamento è cominciato a partire dal ’94 con l’avvento di Internet».
E le ristrettezze imposte dal Covid hanno ora prodotto nuovi spunti di riflessione?
«Nel periodo di clausura (scusate ma non voglio usare termini inglesi come “lockdown”) abbiamo assistito a significative variazioni: intanto è sparita la tv in diretta negli studi, è sparito il pubblico, i conduttori sono rimasti in isolamento. Poi alcuni hanno iniziato a collegarsi da casa. E così abbiamo assistito a grandi personaggi che intervenivano dalle loro abitazioni, come Lady Gaga da Los Angeles… Ma questa non è televisione».
Qualcuno potrebbe accusarla di essere nostalgica.
«Il fatto è che la buona tv richiede un’accurata preparazione. È un’altra cosa. Un po’ come il “citizen journalism” di cui si è tanto parlato in questi ultimi anni: non è giornalismo. E così la tv, richiede organizzazione, non è tinelli e scaffali di librerie come quelli che abbiamo visto in questo periodo».
Torniamo a prima del Covid: cosa era accaduto alla tv?
«Che la rivoluzione dall’analogico al digitale ha portato alla moltiplicazione dei canali e dei contenuti. La tv generalista che si presentava sul tuo telecomando nelle prime posizioni, è finita in coda. Basta pensare ai programmi di successo: sono tutti datati. Il Grande Fratello ha ormai vent’anni, Striscia trentacinque, Domenica In quaranta…».
E perché questa difficoltà a creare nuovi format?
«Perché dal 2008 in avanti, da quando cioè conviviamo con la crisi, i pubblicitari non si fidano più, vanno sull’usato sicuro, stessi conduttori e stesse trasmissioni. Carlo Conti è quasi una mascotte».
L’alternativa è rappresentata dai new media come Netflix.
«Prima c’è stata la piccola rivoluzione di Sky, poi sono arrivati i canali in “streaming”. E questa devo dire che è stata una svolta. Le serie tv propongono nuovi orizzonti così come un tempo, negli anni ’60, il piccolo schermo faceva scoprire il mondo. Oggi con Netflix il mondo lo vivi dal Sudafrica alla Palestina. Io mi sono appassionata a “Fauda” (in piemontese significa grembiule ma in arabo è caos). E sulle vicende che accadono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dice più cose di qualsiasi documentario. La fiction (qui non mi viene un termine italiano) è potentissima, va alla pancia dello spettatore, è rivoluzionaria».
Esiste ancora la figura del critico televisivo?
«Alla Stampa avevo ereditato il ruolo da Ugo Buzzolan che si rivolgeva a una platea enorme per una tv condivisa: “Portobello” aveva 15 milioni di spettatori, Fantastico 20, era qualcosa di potente di cui si parlava il giorno dopo nei bar, in ufficio e a scuola. Oggi il critico non è più quello che bacchetta anche perché gli capita di parlare di programmi che in tanti magari non hanno visto. Una volta il successo coincideva con venti milioni di telespettatori, oggi ne bastano tre… Allora il critico è come Virgilio che ti guida nel “mare magnum” dei programmi e che dice: se ti fidi di me, sappi che Fauda merita di essere visto, che quel conduttore è bravo…».
Lei ha conosciuto tantissimi personaggi televisivi.
«Dal vivo sono spesso diversi rispetto a come ci appaiono dietro lo schermo. Ci sono i puntigliosi come Antonio Ricci, quelli che si lasciano scivolare tutto addosso come Carlo Conti, quelli che soffrono le critiche come Fiorello o Arbore, quelli onnipresenti come Baudo oppure che si centellinano come Panariello».
È anche protagonista da anni del Festival della Tv e dei nuovi media di Dogliani. Che tipo di esperienza è stata?
«Sorprendente. All’inizio nessuno forse avrebbe scommesso sul suo successo. Portare la grande tv fuori dai circuiti consueti non era facile, invece la location di Dogliani e delle Langhe è diventata un punto di forza. Il virus ha lasciato il segno, la rassegna quest’anno si farà a settembre, ma ormai si tratta di un polo importante e di qualità».
Sono davvero tanti i personaggi transitati da quel festival.
«Sì, abbiamo visto protagonisti come Cattelan, Baudo, Littizzetto, Giletti, Cucciari e Clerici oltre ai dirigenti di Rai, Netflix, Fox, Google… Gli organizzatori sono riusciti ad abbinare la professionalità alla disponibilità di un intero territorio. La caratteristica peculiare del cuneese è questa: la capacità di riuscire a passare dal dialetto all’italiano forbito con grande semplicità, esattamente come sa fare un grande professionista come Carlin Petrini oppure come i Trelilu».
Qual è il futuro della televisione?
«Al momento non si vedono nuovi personaggi (Cattelan non è giovanissimo) e non mi aspetto idee realmente innovative, al di là della fiction che resta la forma narrativa e divulgativa più efficace, anche perché è capace di coinvolgere i giovani attraverso l’uso dei loro telefoni o altri dispositivi. I vostri figli guardano ancora la tv?».