A tre anni di distanza dall’omicidio, il primo giugno 2005, nel processo di primo grado la Corte d’assise di Bologna condannò a cinque ergastoli altrettanti componenti delle Nuove Brigate rosse: Nadia Desdemona Lioce, Roberto Morandi, Marco Mezzasalma, Diana Blefari Melazzi e Simone Boccaccini (tutte condanne confermate negli altri gradi di giudizio, ad eccezione di Boccaccini, la cui pena fu ridotta a 21 anni). A ricevere quelle condanne, gli autori dell’omicidio di Marco Biagi.
L’Italia cancellava così l’incubo brigatista, che dopo Biagi riuscì a mietere un’ultima vittima: Emanuele Petri, sovrintendente ucciso nel corso della sparatoria nata sul treno al momento dell’arresto dei criminali sospettati del delitto bolognese. L’uccisione di Marco Biagi, giuslavorista e consulente dell’allora ministro del Welfare Roberto Maroni, in seno al Governo Berlusconi II, risale al 19 marzo 2002. Fu quello, di fatto, l’ultimo omicidio politico della formazione di estrema sinistra, che, dopo dieci anni di apparente silenzio, era tornata a far paura in Italia nel 1999, assassinando Massimo D’Antona, reo, come Biagi, di essere collaboratore di un governo alle prese con le profonde mutazioni vissute dal mercato del lavoro a fine secolo.
L’Italia a cavallo tra i due millenni, infatti, era una nazione alle prese con il profondo scontro tra passato e futuro in ambito lavorativo. Da un lato c’era chi, fedele alle conquiste legislative dei decenni precedenti, riteneva fondamentale che lo Stato potesse intervenire nelle dispute interne alle aziende tra datori di lavoro e operai; dall’altro, invece, coloro i quali ritenevano superata questa convinzione, invocando un’evoluzione dei rapporti che avrebbe riaffermato la centralità del contratto rispetto all’ingerenza legislativa.
Apparteneva a quest’ultima schiera anche Marco Biagi, nato nel 1950 a Bologna, dove si laureò, prima di diventare, nel 1984, professore di diritto del lavoro e diritto sindacale italiano e comparato all’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel frattempo, aveva continuato a coltivare la sua passione politica da socialista cattolico, entrando in contatto sempre più frequente con le classi dirigenti del tempo.
Dagli anni Novanta, la sua esperienza e le sue competenze lo portarono a ricoprire ruoli sempre più importanti: nel 1993 iniziò a collaborare con la Commissione europea, un anno dopo divenne presidente dell’Associazione italiana per lo studio delle relazioni industriali, fino a iniziare a collaborare con il Ministero del Lavoro nel 1995. Nonostante l’instabilità politica italiana di quegli anni, Biagi non uscì più dalla cerchia dei grandi esperti a cui ministri e sottosegretari facevano riferimento, assumendo diversi incarichi a ogni cambio di governo, fino a divenire consulente di Roberto Maroni nel 2001.
La sera del 19 marzo 2002, di ritorno a casa in bicicletta dalla stazione di Bologna, dove era arrivato dopo la consueta giornata di lezioni all’Università di Modena, fu fermato e ucciso da due brigatisti a bordo di un motorino, coperti dal casco, in via Valdonica. Poche settimane prima, dopo averne usufruito per alcuni anni, gli era stata tolta contro la sua volontà la scorta, affidatagli per via delle molte minacce di morte ricevute proprio dal mondo della sinistra eversiva.
Di Marco Biagi rimane un’eredità di grande spessore: proprio nelle settimane dell’arresto venne approvata la legge che portava il suo nome e che rivoluzionò per sempre i rapporti di lavoro nel nostro Paese.