2011 – Draghi presidente Bce

L’economista italiano scelto come nuova guida dell’istituto monetario continentale

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«La Bce è pronta a fare tutto il ne­ces­sario per pre­servare l’Eu­ro». Se c’è un discorso che anche tra un secolo verrà utilizzato per ricordare gli ultimi trent’anni della storia dell’Europa e della Comunità europea questo è sicuramente il celebre “What­ever it takes”, pronunciato il 26 luglio 2012.

A scandire quelle parole, esprimendo in una sintesi estremamente efficace il sen­so delle istituzioni continentali e la strategia tracciata dalle stesse nei dif­ficili anni della crisi economica, fu quello che Forbes definì nel 2018 come il diciottesimo uomo più influente al mon­do e che per molti è ed è stato l’italiano più influente della sua generazione: Mario Draghi.

I nove anni di sua presidenza al­la Banca centrale europea (Bce) che ci siamo lasciati alle spalle proprio nel 2020, con il passaggio di consegne a Christine Lagarde a fine 2019, hanno tracciato un solco senza precedenti nella storia dell’Unione, che ha attraversato forse il momento più delicato della sua storia nelle solide mani di un uomo che ha sempre messo la comunità d’intenti come presupposto fondamentale del suo operato.

Nato a Roma nel 1947, figlio d’arte in quanto il padre nel 1922 entrò in Banca d’Italia, Draghi si è laureato all’Uni­ver­sità La Sapienza, completando poi i suoi studi presso il
Mas­sachusetts institute of technology, uno tra i poli specialistici più importanti degli Stati Uniti.

Ritornato in Italia, dopo alcuni anni da professore universitario, ha vissuto una vera e propria svolta professionale nel 1983, divenendo consigliere dell’allora Ministro del tesoro Gio­­vanni Goria, trampolino di lan­cio per il passaggio a direttore generale del Ministero del tesoro, avvenuto nel 1991.

Nei dieci anni in questo ruolo, Draghi ha di fatto rivoluzionato la politica economica italiana, dimostrando di saper leggere i tempi e direzionando le politiche dei governi nell’ottica della privatizzazione di mol­te aziende statali. Nel 2001, alla chiusura del suo operato, il peso del debito pubblico sul Pil nazionale si era ridotto di dieci punti percentuali.

Dopo una breve parentesi alla Goldman Sachs, dal 2005 ecco un’altra grande chiamata: quella a presidente della Banca d’Ita­lia, in sostituzione di An­tonio Fazio. Sono questi gli
an­ni in cui Draghi dimostrò la sua grande abilità nella gestione di situazioni economiche difficili e so­prattutto la sua ascendenza sul­la classe politica.

Le sue “considerazioni finali”, che come d’abitudine vengono lette a fine anno dal presidente della Banca d’Italia, divennero dei momenti di forte caratura politica, in cui Draghi, con la solita eleganza, indicava punto per punto le linee guida che i governi avrebbero dovuto seguire per rilanciare l’economia dell’Italia.

La presidenza fu il preludio al compimento del suo percorso, avvenuto nel 2011, con la
no­mina a presidente della Ban­ca centrale europea.
Il resto è storia recente: nei qua­si nove anni alla guida dell’istituto finanziario continentale Dra­ghi si è dimostrato grande mediatore, gestendo la difficilissima fase successiva alla congiuntura economica del 2008.

Da “fratello maggiore” del­l’Italia, non ha mai fatto man­care “richiami” al suo pae­se d’origine in tutte le occasioni in cui l’operato del governo in carica circa i temi finanziari non lo convinceva, strizzando comunque l’occhio quando necessario. Il “quantitative easing” (strumento di politica mo­netaria volto a rilanciare l’economia colpita dalla crisi) del 2015 è stato forse la sua più grande intuizione tecnica, ma a Draghi si deve il merito di aver saputo tenere coesa l’Uni­o­­­ne in una fase che avrebbe potuto causarne un grave indebolimento.

Tutto ciò, a ogni co­sto. “Wha­tever it takes”, ap­punto. E non è un caso che og­gi, a 72 anni, il romano sia in­dicato da più parti come il profilo ideale per risollevare l’Ita­lia nel “post Covid”.