Chi può dimenticare l’irrinunciabile papillon, le giacche preferibilmente a quadri confezionate con tessuti di recupero trovati nei mercatini rionali, i panciotti policromi, gli occhiali tondi, i capelli portati all’indietro, lo sguardo ipnotico e al contempo ironico fisso nella telecamera, la parlata lenta, marcata da lieve rotacismo e dalla voce rauca di incorreggibile fumatore che penetrava i timpani di chiunque la ascoltasse? Chi potrà dimenticare un famosissimo storico dell’arte, critico, docente, ex assessore di Milano e chi più ne ha più, più ne metta quale è stato il “dandy baudelairiano” Philippe Daverio scomparso nei primi giorni di settembre di un globalmente infausto 2020?
Nessuno, credo; e non solo tra gli appassionati di arte, cultura e arguto opinionismo. Daverio era nato nel 1949 a Mulhouse, in Alsazia, da padre italiano e da madre alsaziana e aveva conservato poi anche la cittadinanza francese. Dopo gli studi in collegio, si era iscritto a economia e commercio all’università Bocconi, ma non si era mai laureato («… nel 1968 si andava all’università per studiare e non per laurearsi» era solito dire) preferendo concentrarsi sulla passione per l’arte. Nel 1975 aveva aperto la Galleria “Philippe Daverio” in via Montenapoleone a Milano e, nel 1986, fu la volta della “Philippe Daverio Gallery” a New York, con un focus sulle avanguardie e sull’arte del ‘900. Negli anni a seguire curò diverse pubblicazioni e mostre, diresse il periodico “Art e dossier” e collaborò con le case editrici Skira e Rizzoli, oltre che con diversi giornali tra i quali Panorama, Vogue e Style Magazine del Corriere. Fra le sue ultime pubblicazioni si possono ricordare “Racconto dell’arte occidentale dai greci alla pop art” (Solferino), “La mia Europa a piccoli passi” (Electa) e “Grand Tour d’Italia a piccoli passi” (Rizzoli). Debuttò inoltre sul piccolo schermo come inviato di “Art’è” per poi capitanare programmi come “Artù” e, soprattutto, dal 2000 al 2012, il fortunato “Passepartout” che gli diede grande visibilità e notorietà. In questa occasione evitò il tono altezzoso e soporifero dell’Accademia prestata alla televisione o quello fastidiosamente arrogante di altri “colleghi” rifuggendo le sterili banalizzazioni scolastiche didascaliche o le invettive e coinvolgendo lo spettatore in un viaggio insolito, ricco di riferimenti colti e di “boutade” surreali, di aneddoti leggendari e di dettagli inediti. Un vero e proprio “grimaldello” per farsi capire (e amare) da un pubblico di massa con la chiarezza limpida di chi conosceva la complessità della materia e con la capacità di guidare lo spettatore per farlo entrare dentro il mondo creato dalle sue parole e dalle ricercate immagini.
Lontana dagli accademismi, dalla critica ufficiale e dalle correnti universitarie, quella di Daverio fu una vera e propria filosofia dello sguardo che trasformava il critico in un demiurgo capace di mostrare l’invisibile. Ed anche i suoi interventi pubblici e i suoi saggi divulgativi sono stati un florilegio di contaminazioni tra discipline diverse: secondo lui non poteva esserci arte senza riferimento alla storia e alla filosofia, all’antropologia e alla sociologia, alla letteratura e alla psicologia. Ma anche tra cultura alta e cultura bassa non vedeva steccati invalicabili: scovava legami tra grandi artisti ed epigoni minori, tra enogastronomia e folklore, tra vezzi caratteriali e abitudini popolari raccontando l’arte attraverso i suoi contesti più che soffermandosi sulle opere. Nella narrazione di Daverio l’opera, anzi, era spesso una sorta d’accessorio che serviva per rafforzare un discorso più generale. Quel discorso che lo condusse molte volte ad affermare: «Sono ancora convinto che la cultura salverà il mondo». Una frase che rimarrà un grande emblema del suo vissuto.
Philippe Daverio il “dandy” dell’arte
Addio al critico che più di ogni altro ha saputo avvicinare il pubblico di massa a diverse forme espressivee mostrare l’invisibile