«Politica e mostri se li sconfiggiamo cambiamo l’Italia»

Il leader di Azione arriva il 30 a Cuneo per il suo ultimo libro: «Quando votiamo ci dimentichiamo dei valori che contano: ma poi il meno peggio diventa male assoluto. Servono politici capaci di gestire le conseguenze dei provvedimenti. Oggi non accade»

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La ricetta di Carlo Calenda: «dipende da noi»

Carlo Calenda, i mostri della politica si possono davvero sconfiggere?
«Salvini, Di Maio o Toninelli non sono lì per caso, ma perché ce li abbiamo mandati noi. I mostri sono dentro di noi e il più temibile è proprio il nostro rapporto con la politica. Quando scegliamo chi votare non usiamo gli stessi criteri della nostra vita privata, come serietà o preparazione. Sono anni che votiamo mossi dall’ideologia, per squadra di appartenenza, ignorando il concetto stesso di competenza. Sce­gliamo il meno peggio che regolarmente diventa il peggio in assoluto, dimenticandoci il significato della parola politica: arte di governare. Sconfiggere questo e altri mostri è una strada lunga e faticosa, quello che stiamo facendo con Azione, ma è l’unico modo di cambiare qualcosa».

Quali sono gli errori principali commessi fin qui dalla politica italiana?
«Il primo è quello di sottovalutare, per non dire ignorare, l’aspetto gestionale. La maggior parte degli esponenti politici sembra credere che il proprio lavoro finisca al momento in cui si annuncia un provvedimento e che una volta stanziate le risorse tutto andrà magicamente bene. Ma la parte più importante è l’attuazione, verificare se la misura funziona e apportare correttivi se non è così. Non lo fa nessuno. Basta vedere quello che è successo con la Cassa integrazione durante la pandemia».

Una nuova politica deve riferirsi al sistema economico e sociale vigente o deve immaginarne uno inedito?
«In un mondo globale il sistema economico e sociale non aspetta la politica per cambiare, ma lo Stato ha il dovere di gestire le grandi transizioni, proteggendo chi viene lasciato indietro dai cambiamenti epocali, accelerati alla globalizzazione. Un’intera generazione di liberali si è illusa che il mercato avrebbe corretto automaticamente queste storture, così non è stato. Negli ultimi trent’anni abbiamo investito molto sulla tecnologia ma non abbastanza sull’uomo, sulla conoscenza. Quando un’intera fabbrica chiude o un settore professionale sparisce lo Stato deve accompagnare questa transizione, aiutando la riconversione dei lavoratori e degli impianti. Altrimenti aumentano le disuguaglianze e in molti sono spaventati dall’idea stessa di progresso».

Si passa necessariamente da un maggiore coinvolgimento delle persone?
«Da una maggiore responsabilizzazione, torniamo al rapporto alla politica. I cittadini devono uscire dalla logica del tifo. Molti elettori oggi si accontentano di quelli che chiamo i “politici eco”, gente che ripete le loro preoccupazioni come fossero avventori di un bar, senza mai un rimedio concreto».

Quali prospettive per l’alleanza Cinque Stelle-Pd?
«Io sono uscito dal Pd e ho dato vita ad Azione dopo questa alleanza, perché ritengo che gli e­redi delle grandi famiglie politiche del ’900 (liberali, socialdemocratici e popolari) debbano allearsi per sconfiggere i populismi, non sottomettersi a loro. L’alleanza giallorossa è un compromesso inaccettabile dal punto di vista valoriale. Detto questo, il Governo Conte II nasce con l’obiettivo dichiarato di non andare al voto per scongiurare che la destra e Salvini vincano le elezioni. In nome di questo si accetta tutto. A questo punto la domanda è: quali prospettive per il Paese, nella morsa del bipolarismo Di Maio-Salvini?».

Lei è anche imprenditore: la politica deve acquisire competenze, guardare ai curriculum?
«Dovrebbe guardare soprattutto a quelli. Ripeto, finché continuiamo a eleggere persone che non hanno mai amministrato niente come possiamo pretendere che amministrino bene lo Stato? Questo meccanismo va interrotto, scegliendo le persone competenti. Ma siccome non sentiamo lo Stato come nostro preferiamo affidarlo ai “capitani” delle squadre ideologiche che tifiamo».

L’autunno è arrivato, crede che le previsioni negative sulla ripresa saranno confermate?
«Fin qui si è tentato, con molti errori, di congelare l’economia italiana per superare la chiusura. Ora è arrivato il momento di rimetterla in moto. Con Azione abbiamo fatto un’opposizione molto costruttiva, decine di proposte e correttivi da apportare, rimasti tutti inascoltati. Se ci basiamo su come sono stati impegnati i 105 miliardi di scostamento di bilancio fino adesso, c’è da temere».

Come e quando si uscirà dal Covid?
«Le chiusure mirate in Francia e Gran Bretagna dimostrano che dobbiamo convivere con il Covid-19. Serve programmazione. Dopo mesi siamo arrivati impreparati a una sfida, oggettivamente difficile, come la riapertura delle scuole: abbiamo parlato unicamente di banchi a rotelle. Valutate voi. Anche sulla possibile seconda ondata Azione aveva presentato un modello a semafori con chiusure praticamente automatiche divise per settore economico e per provincia. Ancora oggi il Governo non ha un piano del genere».

Il Recovery Fund è la strada giusta per ripartire?
«È una fonte di finanziamento importante ma dalle reazioni di alcuni leader politici sembra che l’Italia abbia vinto la lotteria, non è così. Consideri che in Francia hanno già preparato un documento di 300 pagine con ogni capitolo di spesa. In Italia per ora solo 60 pagine di linee guida. Il dibattito è molto ideologico pure su questo, mentre è vitale spendere bene le risorse. Pensate che il Mes, con cui potremmo sistemare la sanità pubblica, in sofferenza da prima del Covid, è molto meno condizionato del Recovery Fund. Il M5S però ne ha fatto un suo cavallo di battaglia, vedremo se il Pd porta a casa almeno questo».

Lei ha verificato anche su questo territorio (caso Embraco) i guasti della politica che ha aperto con troppa fiducia alle multinazionali: come si torna indietro?
«Anche qui non si tratta di fidarsi ma di lavorare e vigilare, un esempio di quello che intendo quando dico che lo Stato deve gestire le trasformazioni e proteggere chi le subisce. Embraco è una delle ultime crisi di cui mi sono occupato al Mise. Le operazioni di reindustrializzazione sono complesse e spesso non vanno in porto, per questo quando Whirlpool decise di vendere a Ventures ho varato un fondo anti-delocalizzazioni di 200 milioni di euro (il mio ultimo atto al Ministero) che era il paracadute per Embraco. Di Maio non ha monitorato la situazione e ha pure cancellato il fondo, accusando me invece di fare il suo lavoro. La notizia di pochi giorni fa, che prevede la riconversione dell’impianto di Riva di Chieri nella produzione di compressori per frigoriferi dal 2022 potrebbe mettere fine al calvario dei lavoratori. Mi sono complimentato con la sottosegretaria Todde, se davvero accadrà avrà fatto un grande lavoro. Me lo auguro con tutto il cuore, non si fa propaganda sulla pelle dei lavoratori».