«Chi dice che è impossibile non dovrebbe disturbare chi ce la sta facendo». Parola di Albert Einstein. E Giovanni Bressano, storico presidente di Famija albeisa, lo ha preso alla lettera. Ad esempio, ideando e organizzando la Kulinarische Genuesse, rassegna enogastronomica che, dal 1991, si svolge ogni due anni a Böblingen, città tedesca gemellata con Alba. È per questo e, in generale, per l’impegno profuso da Bressano «per la pace e l’amicizia in Europa» che il “land” (stato) tedesco del Baden-Württemberg ha deciso di conferirgli la medaglia “Staufer”, onorificenza che affonda le sue origini nel Medioevo, all’epoca di Federico I “Barbarossa”. «Ma non confondetevi», precisa Bressano al telefono, «perché il riconoscimento è un premio per tutti quelli che sono sempre stati al mio fianco».
È sempre stato così altruista?
«Guardi, io ho semplicemente cercato di tradurre “in pratica” i valori che mi hanno trasmesso i miei amati genitori, Giuseppe Bressano e Vittoria Marengo».
Che ricordo ha di suo padre?
«Tanti, bellissimi, anche se non è stato tutto facile… (si commuove, nda). Mi ha insegnato a rispettare gli altri e le regole, a dare un ordine alle cose, a credere nel bene comune e nella famiglia e a lavorare con dedizione e scrupolo».
Ci parli di lui. È stato un pioniere della viticoltura…
«Langhetto Doc di Montelupo albese, era un brillante enotecnico e lavorava per la Società Mirafiore vini italiani, allora proprietaria dell’azienda agricola di Fontanafredda e dello stabilimento enologico ed oleario di Greve in Chianti. È per questo motivo che io sono nato nel paese toscano. È passato quasi un secolo: era, infatti, il 17 agosto 1928».
Come mai tornaste ad Alba?
«Il 1931 fu un brutto anno per la Mirafiore, a causa della filossera e di problemi finanziari. Fontanafredda e lo stabilimento di Greve finirono all’asta e furono aggiudicati al Monte dei Paschi di Siena. Chiuso lo stabilimento di Greve, l’istituto bancario era intenzionato a disfarsi anche di Fontanafredda. Mio padre venne trasferito ad Alba per dirigere la tenuta in questa fase. Si rese conto del fatto che era opportuno non venderla: così, convinse i dirigenti senesi ad avviare un programma di ricostituzione viticola e ammodernamento della cantina».
Che ricordi ha di quel periodo?
«Ero un bambino, ma ho impressa l’immagine di una famiglia che credeva fortemente in ciò che faceva. Mio padre diede un impulso decisivo per il rilancio di Fontanafredda. Era un uomo molto coraggioso: del resto, era tornato dalla Prima guerra mondiale con una medaglia di bronzo».
E sua madre?
«Mamma era originaria di Fontanafredda, essendo la figlia del cuoco del conte figlio del re Vittorio Emanuele II. Aveva conosciuto mio padre ad Alba e si erano sposati prima di partire per Greve. Gli è sempre stata vicina, anche negli anni dell’impegno civico».
Per chi non lo sapesse, infatti, suo padre è stato podestà di Alba dal 1938 al 1943…
«Si recava in Municipio ogni giorno. Partiva alle 10,30 in punto da Fontanafredda con la sua celeberrima Peugeot. Quando “innestava” la “seconda” marcia per inerpicarsi sul ponte della ferrovia, mezza Alba sapeva che il podestà “stava arrivando”. Ricordo, in particolare, un fatto: la vigilia di Natale del 1943, quando decise di trascorrere la notte a Cuneo per vigilare affinché i repubblicani non facessero del male agli ostaggi. Purtroppo nel 1954, mentre si recava a Torino per un incontro di lavoro, ebbe un incidente in auto a Bandito di Bra che gli costò la vita».
A quel punto lei prese il suo posto a Fontanafredda…
«Ero sottotenente di cavalleria del reggimento “Bianchi Lancieri” di Novara, ma decisi di tornare. Entrai in azienda, senza comunque assumere il ruolo di direttore. Ci sono rimasto fino al 1993».
Come è iniziata la sua storia con Famija Albeisa?
«Mi “incastrò” Luciano Degiacomi nel 1955: ero nella sua farmacia e mi fece compilare il foglio di adesione. Diventai l’iscritto numero 107. Nell’associazione ho fatto di tutto, dal segretario al consigliere. Nel 1975, mi hanno di nuovo “incastrato” (ride, nda), nominandomi presidente, carica che ho ricoperto fino al 2010».
La definizione di Famija Albeisa?
«È una bella realtà, un’autentica famiglia, che ha fatto cose importanti per Alba e che potrà farne tante altre. Deve essere un qualcosa che preserva la tradizione, nel rispetto di tutte le sensibilità».
Il progetto a cui è più legato?
«Il restauro della chiesa di San Domenico, reso possibile grazie all’interessamento della Fondazione Crc e, in particolare, di Giacomo Oddero, e la Kulinarische Genuesse: sembrava impossibile anche solo “da pensare” e, invece, è diventata realtà, determinando peraltro anche effetti positivi in chiave turistica».
Veniamo alla medaglia che le hanno conferito. A chi la dedica?
«La medaglia non è mia, ma dei volontari che mi hanno sempre supportato. La dedico a mia moglie Pia Cavallo e alle nostre figlie Donatella e Simonetta: sono senza dubbio le donne della mia vita. A loro devo davvero molto».
Le manca tanto sua moglie, scomparsa nell’agosto 2019?
«Sì, penso a lei spesso. Siamo stati sposati per sessant’anni, a cui bisogna aggiungere quelli “di fidanzamento”… Era un’insegnante molto capace e rispettata. La stimavo parecchio».
Perché lei non ha messo le sue idee a disposizione della politica?
«È una domanda che mi faccio spesso e rispondo sempre allo stesso modo: a me piace il “bianco” o il “nero”, mentre la politica è spesso “grigio”. Non ho mai amato certi tipi di compromessi. E, poi, basta un politico in famiglia (allude al fatto che la moglie sia stata più volte assessore del Comune di Alba, nda)».
A lei, che ha vissuto la guerra, il Covid fa paura?
«Bisogna prestare attenzione ed essere disciplinati. E smettiamola di dire che senza movida i giovani non possono vivere. I “divertimenti” riprenderanno. Piuttosto, si pensi a come aiutare esercenti e attività di ristorazione. Io ne approfitto per… leggere».
Cosa sta leggendo?
«Dalle pagine di IDEA ho saputo del nuovo libro di Aldo Cazzullo “A riveder le stelle”. L’ho subito acquistato. Ha sempre collaborato con Famija Albeisa ed è un nostro orgoglio!».
Il sogno nel cassetto?
«Vorrei risentire “fischiare” il treno per Asti, vedere il terzo ponte costruito e l’autostrada “Asti-Cuneo” completata. Poi… No, meglio, non dirlo, rischierei la scomunica… (ride, nda)».
Avanti, non faccia il timido…
«Hanno fatto “santi” tanti che non lo meritavano. Ora, si faccia “santo” Michele Ferrero: con il suo progetto di impresa, ha salvaguardato e dato valore a un intero territorio. Pensi che ne ho parlato anche al Vescovo…».