Fiera dalla storia centenaria, che già guarda al futuro

causa covid, Il binomio tra carrù e il bue grasso quest’anno non darà luogo alla consueta girandola di iniziative

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Sarebbe forse necessario com­­piere u­na ricerca storica approfondita per po­ter dire se e in che termini la precedente pandemia, ovvero l’influenza spagnola che colpì mezzo mondo tra il 1918 e il 1920, fu in grado di interferire con lo svolgimento della “Fiera del bue grasso di Carrù”. È certo, invece, che all’epoca la manifestazione più attesa dell’inverno carrucese avesse già una decina di edizioni alle spalle, essendo una ghiotta consuetudine che si rinnova fin dal 1910, diventando nel corso degli anni sempre più un momento di valorizzazione del patrimonio zootecnico locale, ma anche un partecipato avvenimento com­merciale e folkloristico. Fin dai primi decenni del Seicento i centri cittadini piemontesi più attivi sul fronte dei mercati e delle fiere erano To­rino, Asti, Cuneo e Pine­rolo, mentre i maggiori mercati settimanali autorizzati era­no quelli di Torino, Cu­neo e Car­magnola.

Le carte attestano successive concessioni e per quanto concerne il mercato di Carrù il riconoscimento ufficiale fa riferimento al 7 aprile 1473: un decreto di Jolanda di Francia, tutrice del duca di Sa­voia Filiberto I. Il duca Filiberto II, il 13 febbraio 1504, decretò la “confirmatio mercati in diebus mercurii et iovis opulento loco Carruci pro fidelitate semper demonstrata Sabaudiae Duci”. Il duca Vittorio Amedeo I, con provvedimento del 15 ottobre 1635, concesse al Comune di Carrù la “fiera libera et franca” per tre giorni dopo la festa di San Carlo. L’im­peratore Na­poleone, infine, il primo settembre 1807 confermò a Car­rù due altre fiere: la prima nel giovedì della Settimana santa e la seconda nel giovedì precedente l’Ascensione. Si trattò di manifestazioni non specializzate che devono essere considerate tra quei provvedimenti di ordine generale a vantaggio della vita economica dello Stato. Ciò che però distinse questa ri­dente e dinamica località dai paesi vicini, grazie alla sua presenza ben sintonizzata nel comparto agricolo e in particolare nella zootecnia, fu l’attenzione volta a porre in evidenza una peculiare razza bovina caratteristica del luogo. La Fiera del bue grasso di Carrù venne dunque istituita nel 1910 sotto gli auspici del Comizio agrario di Mondovì che diede incarico alla sua residenza mandamentale di Carrù di dare inizio alla rassegna annuale.

La scelta del luogo è dovuta alla collocazione centrale in grado di raccogliere il me­glio della razza bovina proveniente sia dalla pianura che dalle colline delle Lan­ghe, ma gli storici ritengono che con tutta probabilità concorse pure il felice intuito di chi conosceva le tradizioni commerciali dei suoi residenti. In quegli anni gra­vava sulla campagna il peso di una scarsa remuneratività dovuta a molteplici fattori, tra i quali una forma di speculazione da parte di chi ritirava prodotti a basso prezzo a fronte di anticipazioni corrisposte nel corso della campagna agraria. Sorsero così forme associative e di cooperazione che cercarono di evitare che si immiserisse la posizione so­ciale di chi lavorava la terra.

La Fiera di Carrù, sorta in questo contesto economico, è senza dub­­bio una ma­nifestazione im­portante per il suo valore associativo, ma soprattutto perché in­gaggiò l’impegno dei suoi abitanti volto alla tutela di una produzione legata al lavoro del­la terra che, per la sua e­sclusività, doveva essere protetta dagli sbalzi ingiustificati del mercato e difesa per assicurarne la conservazione trattandosi di una specie animale capace di buon reddito e che rappresentava, come rappresenta oggi, «il massimo che si può ottenere dalla specie bovina».

Sin dagli esordi l’evento, in una cornice di folclore paesano, mise in luce una precisa scelta verso animali con particolari qualità: buoi grassi di razza piemontese, ossia animali da lavoro scelti tra i più belli, messi a riposo alcuni mesi prima della fiera e ingrassati e­spressamente per la rassegna, vitelli castrati e vitelle sotto l’anno, tori, suddivisi in due categorie, e vacche grasse.
La tradizione viene rispettata ancor oggi, tanto che l’appuntamento in pro­gram­­ma nel mese di di­cembre vede protagonisti solo bovini da macello di razza piemontese, suddivisi nelle categorie buoi, manzi, vitelle, vitelli, vacche, manze, torelli e tori.

Le giurie, composte da tecnici, veterinari, allevatori e macellai, redigono le classifiche per l’attribuzione ai ca­pi migliori delle ambìte gualdrappe e fasce decorate a mano, nonché di medaglie d’oro, coppe, targhe e diplomi.

Una consuetudine quella di premiare il meglio della razza piemontese, che è rimasta immutata e che quest’anno avverrà a porte chiuse (co­me spieghiamo nel box del­la pagina di sinistra). Per l’e­dizione 2020 si dovrà fare a meno anche delle tan­te iniziative collaterali sorte nei decenni passati, grazie alle quali il giorno della Fiera del bue grasso è ben presto diventato una occasione di festa non solo per chi opera nel settore dell’allevamento, ma per chiunque almeno una volta nella vita abbia fatto colazione con una porzione, ab­bondante e fumante di bollito misto, per poi passeggiare nella piazza del mercato, evitando che il freddo dell’inverno cuneese prenda il sopravvento.
Una consuetudine a cui per l’edizione del 2020 sarà necessario rinunciare, per ridurre le occasioni di diffusione del Covid, ma che tornerà presto a rappresentare uno dei momenti irrinunciabili del dicembre non solo carrucese.