La sostenibilità in un “pisello verde”

Francesco Farinetti presenta “Green pea”, nuova scommessa nel solco tracciato con Eataly

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Perché chiamare una nuo­va ambiziosa, av­ventura imprenditoriale “Green pea” (pi­sello verde, in inglese)? Passi la scelta del termine straniero, per strizzare l’occhio al pubblico internazionale, ma non c’era un nome più “sentito”? L’o­biezione ha la sua ragion d’essere, ma se ponete il quesito a Oscar Fari­netti, l’ideatore di questa ennesima sfida, vi spiegherà che è stato scelto il pisello, perché «è sferico e quindi ben simboleggia la ter­ra», e il verde per­ché «è il colore della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente».
Il “Green pea”, in pratica, è la rap­presentazione in miniatura del mondo che vorremmo. Mes­sa così, la questione cambia e il nome fa tutto un altro effetto. Proprio su questa capacità di raccontare la propria visione del futuro, facendola diventare un’a­spirazione collettiva, Fari­netti ha costruito il suo successo. Con “Green pea”, il primo “green retail park” al mondo, intende replicare la formula, pur con tutte le difficoltà del periodo che stiamo attraversando. Non “Farinetti”, a dire il vero, ma “i Farinetti”, perché la nuova avventura vede in prima linea anche il figlio Francesco, amministratore delegato di “Green pea”. Con lui, la Rivista IDEA prova ad andare al di là di quanto già è stato anticipato circa il nuovo progetto.

Siamo alle battute finali prima dell’apertura, prevista per l’8 dicembre. Come vive questa fase che non è più progettuale ma non ancora operativa?
«È il momento più bello, quello in cui si crea la squadra e si vedono concretizzarsi gli sforzi dei mesi precedenti; si passa dai “Power point” alla realtà da toccare con mano. Alle spalle ho l’inaugurazione di 42 negozi “Eataly”, ma è sempre emozionante, anche se inizio a non essere più così giovane…».

In effetti, affronta l’avventura imprenditoriale di “Green pea” da 40enne. È la sfida professionale che sente più sua?
«Non la sento mia più di Eataly, però, sono in una fase di maggiore responsabilità. Di diverso ri­spetto all’apertura del primo Eataly c’è che ora ho dei figli. Il tema del rispetto del pianeta lo imparo di più a stare con i miei figli che non a leggere libri sul tema. Loro sanno che bisogna trat­tare bene il pianeta. La mia generazione è quella del “duty”, del dovere. Ho iniziato a fare la raccolta differenziata perché do­vevo, sennò rischiavo la multa; adesso, invece, sono i miei bambini che mi sgridano. Per loro è “beauty” il piacere di mantenere il mondo così come lo colora un bambino: con il prato verde, il cielo azzurro e il mare blu».

Il percorso di “Green pea” è par­tito circa 10 anni fa quando sostenibilità e temi affini erano poco “caldi” rispetto a ora. Si è trattato di un’altra intuizione “alla Fa­ri­netti” o c’erano elementi oggettivi che lasciavano intravedere questi sviluppi?
«“Green pea” è un progetto che nasce da un’analisi fatta dall’osservatorio privilegiato che avevamo sul cibo grazie a Eataly. Nel 2005 i prodotti al supermercato avevano un’etichetta piccola, che nessuno leggeva; ora c’è maggior attenzione agli ingredienti. Oggi come oggi nessuno legge l’etichetta prima di indossare un abito, eppure l’abbigliamento è la seconda industria al mon­do come fonte di inquinamento. Per cambiare mentalità l’“effetto Greta” è servito, quello Covid ancora di più, perché tutti ci siamo fermati almeno un attimo a pensare al rapporto uomo-natura. “Green pea” parte proprio dal rapporto uomo-natura. Ci sono due possibilità: la prima è studiare e scoprire che mia figlia che ha 10 anni, nel 2070, vivrà in un’Italia con 43 gradi di temperatura me­dia. È scritto: accadrà, se non cam­biamo il nostro modo di vivere. Il secondo modo è far diventare “cool” il comportarsi bene. Il fatto che sia diventato “di moda” parlare di cibo è servito. Ora tanti produttori sono tornati al biologico. La Langa di oggi è diversa ri­spetto a 20 anni fa. Adesso le vigne sono tornate verdi in primavera e non marroni, a causa dei diserbanti».

Venderete solo tramite “negozio fisico” e in Italia “Green pea” sarà a Torino e basta. Intendete rivolgervi a un’area di riferimento territoriale limitata?
«Venivano da tutta Italia a vedere il primo Eataly di Torino, perché era qualcosa di unico. Abbiamo fatto un investimento incredibile per questo “building” che è il manifesto di ciò che vogliamo fare. Inten­diamo renderlo una “destination”, un motivo di visita a Torino che, prima della pandemia, aveva una curva di crescita dell’arrivo di turisti significativa».

Durante l’anteprima con la Fondazione Mirafiore su “Green pea” ha mostrato qualche “chicca”. Per quale si aspetta maggiori consensi e fotografie?
«La vera chicca non l’abbiamo mo­strata: sono i 200 ragazzi che ci lavoreranno e a cui siamo or­gogliosi di dare un lavoro, in particolar modo in questo mo­mento complicato. Ciò che colpirà di più, penso, sarà la comunicazione, come racconteremo i prodotti e la loro lavorazione. Diciamo che si può fare la camicia con cotone che utilizza un quinto dell’acqua, che c’è l’“econylon” proveniente dalle reti di pesca riciclate. Vogliamo fare capire che un’altra via è possibile ed è possibile ora, senza per forza spendere di più».