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«Tra i filari ritrovo la solitudine del numero uno»

L’ex portiere della Juve Stefano Tacconi racconta la sua nuova vita da imprenditore nel settore del vino e dei prodotti di qualità

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«Abbia pa­zienza se le rispondo un po’ frettolosamente, ma so­no impegnato ai fornelli…». Stefano Tacconi non ha perso la schiettezza che lo ha reso uno dei personaggi più popolari del calcio anni ‘80 e ‘90. E, nemmeno, la passione per la cucina, memore del diploma di cuoco conseguito in gioventù.

Ora fa lo chef di professione?
«Avevo in mente di aprire un eno-pub oppure un’enoteca, ma con l’emergenza sanitaria si è fermato tutto… O quasi…».

Prosegua… Non sarà mica un segreto!
«Tutt’altro! Io e mio figlio An­drea abbiamo avviato un progetto per la commercializzazione di vini e prodotti di qualità, con un nostro marchio: Junic».
In estate lei è stato nominato “ambasciatore del Barbaresco”. Nella vostra attività, avrete sicuramente un occhio di riguardo per i vini piemontesi…
«Certo. Stiamo collaborando con diverse aziende del­l’Albese e le cose stanno an­dando piuttosto bene, nonostante la pandemia. Siamo soddisfatti».

Bianco o rosso?
«L’importante è che sia buono. Per­ché, come dice Zoff, “un bicchiere di vino fa male, ma due fanno benissimo”».

Vinificate anche?
«No. Ci occupiamo di vendita e promozione, dopo un’attenta se­lezione dei prodotti. Io faccio un po’ il testimonial… Mi piace mol­to, però, andare nelle vigne».

Come mai?
«Mi piace stare da solo, riflettere. E nei filari riesco a ritrovare quella solitudine del “numero uno” che un po’ mi manca. Non sempre, però, riesco a ritrovarla. Nem­meno in vigna. Spesso, infatti, devo fare i conti con il “numero due”: mio figlio…».

Sta cercando di diventare il “numero uno”. Lo capisca…
«Sì, ma lui vuole sempre avere ragione. Ha proprio un “bel” caratterino».

Non si offenda, ma forse ha avuto un buon maestro…
«Lo dica pure senza problemi: ha sicuramente avuto un ottimo maestro (ride, nda)!».

Potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa del suo carattere?
«No, mi comporterei allo stesso modo. Anche perché credo di aver lasciato un ricordo positivo tra gli appassionati».

Com’è iniziata la sua “storia” con il pallone?

«Nel 1964, quando cioè avevo sette anni, rimasi colpito dal­l’Inter che conquistò la sua pri­ma Coppa dei campioni. Pensi che ricordo ancora la formazione: Sarti, Burgnich, Fac­chetti, Ta­gnin, Guarneri, Pic­chi…».

Si fermi, si fermi! Non so se ai tifosi della Juve faccia piacere sentirla parlare di Inter…

«Ma ero un bambino e i bambini, si sa, tifano per la squadra che in quel momento vince! Peraltro, sono passato per il settore giovanile dell’Inter, restando di proprietà dei nerazzurri per 6 anni».

Però non ci ha ancora spiegato perché scelse di giocare proprio in porta…

«Fu una scelta obbligata. I miei fratelli erano più grandi di me e, quando eravamo fuori per giocare, mi mandavano sempre in porta. All’epoca, ci sfidavamo per strada o nelle campagne, usando cappotti o grossi sassi come pali delle porte».

Già in quel contesto amatoriale si dimostrò una saracinesca.
«Diciamo che me la cavavo: ero piuttosto conteso nelle partitelle tra amici. Del resto, già allora, avevo personalità: mi piaceva giocare con la mia “testa”, senza farmi “comandare” dagli altri. Tutte caratteristiche es­senziali per essere un buon portiere».

Si ispirava a Zoff?

«In realtà, no. Mi rivedevo in “Ricky” Albertosi: decisamente più spavaldo e “paz­zo”. Un po’ come ero io, insomma».

Zoff l’hai poi trovato alla Juve come preparatore e, successivamente, allenatore. Che opinione ha di lui?

«Si è dimostrato un grande ami­co, facilitando il mio inserimento in bianconero e aiutandomi a ge­stire le pressioni».

Con la Juve ha vinto tutto. Anche la Coppa dei campioni. Peccato sia arrivata nella notte “maledetta”, quella del 29 maggio 1985, all’“Heysel”, in cui persero la vita 39 spettatori…
«Purtroppo, se ne parlerà per sempre, anche se, in realtà, non c’è molto da dire: nonostante nel prepartita si fosse consumata una tragedia, le autorità ci costrinsero a giocare quella finale per motivi di ordine pubblico».

Ben altra sensazione deve aver provato vincendo, sempre nello stesso anno, la Coppa intercontinentale contro l’Argentinos Ju­niors. È stata la migliore partita che abbia mai disputato?
«Non credo. In ogni caso, laurearsi campione del mondo, per giunta giocando una partita da protagonista, è il massimo».

Ha il rimpianto di non essere riuscito a imporsi anche con la Na­zionale maggiore?
«No, ho comunque stabilito un piccolo record: nelle sette partite in cui ho difeso la porta azzurra, l’Italia non ha mai perso. E uno dei due gol che ho subìto porta la firma di Maradona. Scusate se è poco… (ride, nda)».

Il compagno di squadra più forte con cui ha giocato?

«Platini era speciale, ma nessuno batteva Gaetano Scirea: una leggenda entrata nella storia, come Maradona. Il nostro compito, og­gi, è rinnovarne il ricordo».

Ha chiuso con il calcio?
«Lo seguo in tv, ma non è più quello di una volta. Sono cambiate troppe cose, a partire dai calciatori, che non sono più abituati alla “gavetta” e al sacrificio».

E la politica? Dopo alcune candidature non esattamente “entusiasmanti”, ha messo da parte queste ambizioni?

«Come il calcio, anche la politica non mi appassiona più. In generale, nella società attuale, ci sono troppe cose che non mi piacciono. Meglio che stia zitto».

Sull’“Isola dei famosi”, però, ci è andato…

«Nella mia vita sono stato ospite di Pippo Baudo, Corrado, Mike Bongiorno; ho prestato il volto per pubblicità e concorsi, tra cui il “Vinci Campione!” di Ferrero. Alla luce di ciò, la partecipazione a un “reality show” non mi pare così clamorosa».

Il sogno nel cassetto per il 2021?

«Dopo ciò che è stato il 2020, il mio desiderio per l’anno che verrà si può sintetizzare in una parola: vivere».

BaNNER
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