Sono disagiati, disabili, rei o “matti”, ma prima di tutto persone, e come tali de­vono essere trattate. Gli individui ai margini della società sono i protagonisti di Voci Erranti, associazione che da vent’anni permette loro di far sentire la propria voce attraverso la recitazione. La presidente, nonché direttrice artistica, Gra­zia Isoardi, ci accompagna alla scoperta di questo particolare sodalizio che crea un ponte tra quanto può apparire strano e ciò che viene reputato normale.

Grazia, quando ha preso vita Voci Erranti e da chi è composto il direttivo?

«L’associazione nasce con lo spettacolo “Voci erranti” rappresentato nel giugno del 2000 all’interno dell’ex manicomio di Racconigi con in sce­na il gruppo di utenti e infermieri che avevano partecipato al mio laboratorio teatrale. Dal 2017 siamo anche coope­ra­tiva sociale, per creare opportunità lavorative per chi è socialmente svantaggiato. Io sono la presidente, mentre il vice è Marco Mucaria. Completano il direttivo Alessandro Vallarino, Cri­stiana Soci, Grazia Oggero, E­leonora Milanesio, Raffaella Antona e Adriana Ribotta».

Cosa vi ha spinto nella direzione della creazione del sodalizio?

«Ci siamo costituiti come associazione perché l’esperienza teatrale con i diciotto uomini e donne ex pazienti psichiatrici della struttura di Racconigi, partecipanti al primo laboratorio teatrale, è stata così intensa ed ha raccolto così tanto interesse da parte del pubblico e dei giovani del territorio, che non poteva finire nel vuoto. La necessità di fare memoria e di dare voce a chi vive un disagio, molte volte ai margini della società, è stata la motivazione principale per proseguire l’e­sperienza. Successivamente al manicomio, sotto richiesta della nuova direttrice, Marta Costantino, abbiamo iniziato a lavorare con il teatro in carcere. Altro capitolo di lavoro che negli anni è cresciuto molto. Siamo così partiti dallo spettacolo all’interno della casa di reclusione “Morandi”, il quale ha avuto moltissimo successo, e ci ha fatto portare a casa numerosi premi da parte di critici teatrali».

Perché dar voce a queste persone proprio tramite il teatro e non con altre forme di arte forse meno impegnative?
«Il teatro è uno strumento straordinario per fare cultura e per creare occasioni di ascolto e di narrazione. Sono state davvero tante le persone che hanno partecipato ai nostri laboratori teatrali presso la palestrina nell’ex panificio del manicomio, spazio che, su concessione del primario di psichiatria, Giuseppe Gazzera, abbiamo recuperato insieme agli utenti. Quello è stato un bel momento di riscatto per chi il manicomio l’aveva vissuto sulla propria pelle e, per me, un privilegio poter essere parte attiva di quel processo di trasformazione».

Avete ricevuto dei premi in questi anni?
«Sì, grazie al lavoro in carcere abbiamo ricevuto due prestigiosi premi: nel 2018, a Roma, quello dei critici teatrali per lo spettacolo “La classe” e pochi giorni fa il primo premio del Ministero di Madrid per lo spettacolo “Al limite” come miglior spettacolo in carcere della Spagna. Siamo cofondatori del Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere».

Oltre a lavorare con persone caratterizzate da difficoltà sociali, avete altri laboratori?

«Oltre a lavorare con i detenuti, (a breve partiremo a collaborare con il carcere di Cuneo), facciamo formazione teatrale, nella nostra sede di Savigliano, per i bambini, gli adolescenti, i giovani e tutta la cittadinanza. Siamo operativi nella struttura sanitaria Rems di Bra, in centri diurni per disabili a Saluzzo e Savigliano, presso alcuni istituti scolastici della provincia».

In questo periodo ricorrono i 20 anni di Voci Erranti. Quanta strada è stata fatta e che consapevolezze vi ha lasciato?

«Se guardiamo da dove siamo partiti, possiamo dire che in questi 20 anni di strada ne ab­biamo fatta tanta. È stato lungimirante Mario Riu, nostro ex presidente, quando ci ricordava di “tenere sempre porte e finestre aperte, anzi spalancate”. Il teatro ci ha dato la possibilità di incontrare migliaia di persone, molti artisti, giornalisti, docenti e studiosi del settore. Abbiamo fatto teatro con i ragazzi delle Vele di Scampia a Napoli, con i giovani universitari di Assun­cion in Paraguay, con le donne nigeriane, con i giovanissimi del carcere minorile di Torino, con le transessuali detenute e molte persone affette da dipendenze… Insomma, abbiamo avuto il privilegio di avere incontri straordinari e di conoscere un’umanità tutt’altro che banale. Oggi siamo consapevoli di essere una realtà di riferimento per quanto riguarda il teatro sociale e la realizzazione di progetti di reinserimento sociale e lavorativo per persone svantaggiate».

È complesso approcciarsi con persone che hanno percorsi difficili alle spalle?
«No, anzi. Ciò che aiuta a in­staurare un rapporto di fiducia è la capacità di ascolto e di non giudizio. Come ci hanno insegnato i nostri primi attori “da vicino nessuno è normale” e il confine è molto sottile tra malato e sano, tra buono e cattivo. Dentro al gioco del teatro si azzerano ruoli e stereotipi e ri­mane esclusivamente la nostra umanità in una dimensione di verità. Alla fine siamo tutti sulla stessa barca e ci tocca su­perare anche gli imprevisti che il viaggio comporta».

Qual è stato lo spettacolo o il progetto più gratificante?

«È difficile dirlo. Sono tutte “creature” per noi importanti. Se proprio devo individuarne uno, per il teatro scelgo “A­munì”, lo spettacolo con i detenuti che conta oltre trenta repliche e che continua a essere richiesto, invece per i progetti ci stanno particolarmente a cuore il Caffè In­tervallo che gestiamo, come cooperativa sociale, a Sa­viglia­no e il Bi­scottificio attivo all’interno del carcere di Sa­luzzo».