Spesso si fa prima a tagliare corto facendo riferimento a un generico “lavoro da casa”. In realtà, però, esistono differenze di metodo e di sostanza tra le diverse categorie della nuova frontiera del lavoro, che oggi coinvolge milioni di italiani: teniamo conto, infatti, che a fine 2019 solo il 3,6% dei lavoratori utilizzava le nuove metodologie ma, con il Covid, si sono registrati picchi tra il 40 e il 50%. Va precisato, però, che solo le espressioni “smart working” e “lavoro agile” sono assimilabili e servono per indicare, come prescrive la normativa, «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa». Insomma, si tratta di un modo di vivere la propria professione senza una postazione fissa e limiti temporali, in grado di portare sicuramente benefici (pensiamo alla riduzione dell’inquinamento causata dai mancati spostamenti o a un’organizzazione del tempo della giornata più elastica) ma che deve tenere conto, d’altra parte, di alcuni rischi: il non vedere più il confine tra vita personale e lavorativa (ed è in questo senso che sempre più enti e aziende assicurano il “diritto alla disconnessione”) e soprattutto l’isolamento sociale. Altra questione, invece, quella del telelavoro, una via ancora ibrida tra la maniera più tradizionale (le classiche otto ore in ufficio) e le innovazioni più recenti; il telelavoro solitamente include ancora, infatti, una parte delle mansioni nel luogo fisico di lavoro e, seppur con orari più flessibili, una reperibilità in una fascia di tempo predefinita. Al di là delle differenze, comunque, si tratta di campi che, a causa dell’emergenza, stanno vivendo un intenso sviluppo; e che, a voler cercare la positività nel negativo, forse potranno portare alcuni miglioramenti significativi nella vita di molte persone.