Colloquiando con Malù Mpasinkatu, congolese di origine, italiano di adozione, uomo di sport per lavoro e per passione, non si può non partire dalla nuda cronaca, dall’atroce assassinio dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio. Un episodio che ha scosso la comunità internazionale e profondamente toccato Mpasinkatu, che l’ambasciatore ucciso lo conosceva personalmente, oltre ad essere attento conoscitore ed osservatore delle dinamiche del continente africano.
Mpasinkatu, come commenta quest’episodio?
«Ho avuto modo di entrare in relazione con Attanasio: veramente una gran persona. Su di lui solo giudizi positivi, da parte di tutti. Era un amante dell’Africa, perché per vivere in questo paese bisogna amarlo profondamente, accettare e capire le sue complessità; lì aveva conosciuto la moglie, era stato anche in Marocco ed in Nigeria, prima di trovare la morte nel mio paese natio. Una morte da eroe: a servizio della comunità internazionale, per fare del bene agli altri. Una notizia che mi lascia sgomento, al di là della mia conoscenza personale: in Africa l’Italia e gli italiani sono amatissimi. Ma è una situazione che deve far riflettere profondamente».
Perché?
«È l’episodio estremo di una situazione fuori controllo. Avviene in un paese dove i Caschi Blu sono impegnati in una delle operazioni umanitarie più costose del mondo: è evidente che qualcosa non va. Sul tema mi sono confrontato con l’ex ministro per l’Integrazione, Cecile Kenge, per me come una sorella: concordiamo sul fatto che occorre più attenzione da parte della comunità internazionale per contesti abbandonati, di cui non si parla mai. Per far sì che il sacrifico di queste tre persone non sia stato vano, le organizzazioni internazionali dovrebbero promuovere un’approfondita inchiesta indipendente; e in ultima analisi riflettere sull’opportunità di mettere pace, anche usando inizialmente la forza per debellare le milizie di ribelli che operano in quella zona. Che è il perfetto paradigma dell’Africa come continente benedetto, e maledetto».
In che senso?
«È una zona in cui si vivrebbe benissimo. C’è una grandissima ricchezza di risorse. Ma sono mal distribuite. In pochi ne beneficiano, e in troppi sono quelli che muoiono di fame».
Situazione instabile che ha riscontrato anche nel suo lavoro in ambito sportivo per le nazionali congolesi?
«Il Congo è un paese lacerato da guerre, e dove è difficile instaurare relazioni positive. La macchina burocratica è più lenta. Il materiale umano sportivo è potenzialmente eccellente, ma la disorganizzazione politica ha inevitabili ricadute negative anche sullo sport: mancano le strutture e le condizioni di base. Tuttavia, lavorare per il mio paese di origine mi ha dato emozioni uniche: ricordo con commozione i percorsi in bus con la squadra dall’albergo allo stadio, con una folla oceanica che applaudiva, bambini che ci correvano dietro fino allo sfinimento. Ecco: in quel bambino rivedevo me stesso se non fossi venuto in Italia».
A proposito dell’Italia: la percezione è quella di un paese che discrimina?
«Capita che nelle mie esperienze all’estero l’Italia venga bollata come razzista. Io l’ho sempre difesa strenuamente. Rispetto ad altri paesi europei l’Italia non ha mai avuto dinamiche coloniali di un certo livello. L’immigrazione si è tradizionalmente rivolta verso i paesi anglofoni o francofoni con esperienze coloniali importanti: lì ha una storia di oltre 60 anni. L’Italia ha una immigrazione più “giovane” ed è normale che si trovi ad affrontare problematiche che altri paesi hanno già superato».
Hai vissuto personalmente episodi discriminatori?
«Nella mia infanzia, a Mondovì, c’è sempre stata grande attenzione da parte di tutti, ti sentivi coccolato. Nei miei trascorsi monregalesi mi piaceva addirittura definirmi come “’l Moro d’Mondvì, “il Moro di Mondovì” (richiamando la tradizionale maschera del Carnevale, ndr). Certo, qualche episodio c’è stato, ma nessuno traumatico. Ricordo che quando giocavo a calcio un avversario mi diede del “negro”. Non reagii, gli dissi che ero orgoglioso di esserlo. Mi chiese scusa, mi telefonò persino a casa. Mi sentivo un “trait d’union” tra culture, l’esempio che il “diverso” ti può arricchire. Ho avuto amici che mi hanno detto che conoscermi ha impedito loro di discriminare l’altro. È una cosa di cui vado molto orgoglioso».
E successivamente, a Torino?
«Quando iniziai la mia avventura giornalistica a Radio Energy ricordo la mia insistenza nel voler contattare il responsabile della redazione sportiva. Dopo molte telefonate a vuoto, andai a citofonare direttamente in sede; quando mi videro mi dissero “Non compriamo niente…”. Spiegai che non ero un “vu cumprà”, che ero lì per lavorare. Alla fine mi diedero udienza. E con l’allora responsabile Antonio Paolino nacque un sodalizio professionale e un rapporto di amicizia che va avanti da 25 anni».
Oggi i percorsi di integrazione sono più complessi?
Io sono stato un esempio di integrazione riuscita. Oggi ce ne sono meno perché non c’è più la stessa attenzione di allora, anche perché i numeri sono diversi. Il paese è cambiato, è più fragile economicamente, non si vivono più gli splendori degli anni Ottanta e Novanta. In più, basta un nulla per far scoppiare un putiferio. Un’ipersensibilità che al mio arrivo non c’era».
Lei è uomo di calcio. Ma il calcio è davvero una delle culle dell’intolleranza?
«Non c’entra. Il razzismo è figlio dell’ignoranza, è espressione di chi non vuole confrontarsi con il diverso. Chi non si sforza di capire la diversità rimane anacronistico. Rimane indietro mentre il mondo va avanti. Chi non vuole cambiare si troverà sempre più solo. In questo contesto, lo sport in generale, il calcio nella sua massima espressione, invece può davvero essere veicolo di integrazione. Perché aiuta ad educare».