Con i Maneskin cambia la musica anche a Sanremo

L’edizione del Festival più anomala di sempre ha premiato a sorpresa il gruppo dei ventenni romani e il loro rock alternativo che segna una svolta rispetto al passato

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Il rito collettivo di San­remo, quello di cui tutti parlano (compreso chi dice di non averlo visto) ha vissuto quest’anno un’edizione così anomala da risultare storica. Prima di tutto, per il risultato finale: ha vinto una band, cosa già piuttosto rara, ma soprattutto ha vinto una rock band. E quando si dice rock non si intende quella musica tipicamente italiana che qualcuno vorrebbe ascrivere a questo genere solo per qualche chitarra elettrica in più. No, nel caso dei Maneskin, parliamo di rock che fino a pochi anni fa sarebbe stato definito “alternativo”, ma che di sicuro non ha legami diretti con la tradizione melodica e le “canzonette” tipiche della gara sanremese.
I Maneskin schitarrano e urlano con energia, il “leader” Da­miano David è «fuori di testa ma diverso da loro», in mezzo a tanta gente che «parla ma non sa di che cazzo parla». Un po’ come un manifesto se non di una generazione, almeno di un momento, della realtà che ci circonda. Il titolo “Zitti e buoni” sembra la definizione che meglio si applica alla comune situazione legata al Covid. I Maneskin, che hanno vinto l’edizione numero 71, sono giovani, molto giovani, ventenni, anche se già in campo da qualche anno, da quando nel 2017 si sono imposti all’attenzione generale vincendo X-Factor, il Sanremo del nuovo millennio. Damiano David è “leader” ma condivide l’immagine e i testi con Victoria De Angelis, la bassista di madre danese che ha dato il nome alla band (significa “chiaro di luna”). Thomas Raggi, chitarrista, ed Ethan Torchio, batterista, completano nell’estetica e nella sostanza il gruppo. Hanno trionfato da­vanti alla platea assente del­l’Ariston e a quella straripante dei social con le loro tutine color carne e arabeschi verdi, il trucco e il ritmo alto.
Un altro motivo che ha reso questa 71esima edizione uni­ca, se non bastasse la vittoria dei “rocker” romani (tali solo per l’inflessione della loro parlata, senza altri rimandi alle origini che, altrimenti, potrebbero essere dislocate ovunque nel mondo), è stato il fatto che il timbro musicale si sia espresso a livelli generalmente più alti che in passato, almeno per quanto riguarda i brani più votati. Notevole, per esempio, “Voce”, la canzone costruita e interpretata da Madame (in collaborazione con Dardust, che ha lasciato il segno su altri dei migliori brani di Sanremo), ragazza diciottenne con una maturità artistica fuori dall’ordinario.
Volutamente impalpabile la “Musica leggerissima” di Colapesce e Dimartino, canzone orecchiabile e coinvolgente, malinconica quanto basta, con ottima trama melodica. Inno­vativa e ammiccante “Mai dire mai” del torinese Willie Pe­yote, premio della critica. E perfino Orietta Berti, con il suo brano ostentatamente di un’altra epoca, ha fatto la sua figura, anche con le “gaffe” lessicali e comportamentali.
Forse non si è capito bene che cosa sia accaduto veramente a Sanremo. Tra chi come al solito giura di non aver mai acceso la tv, tra quelli che avevano da ridire per le stecche e i microfoni, il successo sorprendentemente empatico di Zlatan Ibrahimovic, le evoluzioni di Fiorello e la gestione misurata di Amadeus.
I dati hanno certificato in avvio un sensibile calo, ma lo stesso Amadeus ha realisticamente ricordato come, di questi tempi, le persone avessero ben altri problemi che non quello di guardare il Festival, mentre ora dopo ora l’evento ha ampliato il suo trionfo via social, sui “second screen” che ormai accompagnano stabilmente al­tri momenti mediatici come, ad esempio, le partite di calcio: si vede la tv e si interagisce sul tablet o il telefono.
È arrivata anche la classica segnalazione di plagio, stavolta da un duo torinese fin qui oscuro, gli Anthony Laszlo. Cose già viste e altre mai sentite. Le parolacce e le provocazioni.
Il Vescovo di Sanremo ha preso tutto molto sul serio e, nel giorno di uno storico viaggio di Papa Francesco impegnato a portare pace, lui ha etichettato come blasfeme alcune esagerazioni artistiche che, in certi momenti, hanno caratterizzato il Festival della “città dei fiori”.
Ma nel complesso, c’è stato finalmente un passaggio generazionale, segnato anche dal trionfo dei Maneskin.