Difficile racchiudere Carlo Gai in una definizione. Ingegnere meccanico, seconda generazione, insieme al fratello Battista, della Gai Macchine Imbottigliatrici Spa, l’imprenditore è di certo uno che sa lasciare il segno. In senso figurato, ma non solo, dal momento che dello stabilimento di Ceresole d’Alba ha disegnato personalmente persino i tavoli da riunione. La piacevole chiacchierata concessa a IDEA ha provato a far emergere altri tratti dell’uomo, oltre che dell’industriale.
Ingegner Gai, dopo Pinerolo, dove tutto è cominciato nel 1946, e Trofarello, come è arrivata la Gai nel 1985 a Ceresole d’Alba?
«A Pinerolo eravamo in affitto, dunque i miei genitori (mio padre, fondatore dell’azienda, dopo pochi anni fu affiancato da mia madre, che si occupava di contabilità e amministrazione) comprarono un terreno a Trofarello, dove sorse la prima sede di proprietà. Il primo ampliamento l’abbiamo fatto a Trofarello poi, nel momento in cui ci serviva ancora più spazio, tramite un cliente ci è stato proposto un terreno a Ceresole d’Alba. È stata una scelta casuale, ma fortunata: in questa provincia siamo degli “immigrati”, ma molto contenti della mentalità che abbiamo trovato, specie tra gli amministratori, più collaborativi che nel Torinese».
Ed è previsto un ulteriore ampliamento…
«Nella sede di Ceresole siamo partiti con 6.000 metri e ora siamo a 47.000 metri coperti, ma per fortuna abbiamo necessità di avere ancora più spazio, quindi stiamo facendo una previsione di ampliamento, preceduto da una variante della provinciale che passa davanti allo stabilimento. Probabilmente i lavori potranno iniziare tra un paio d’anni, ma in questo momento le condizioni sono molto variabili e preventivare tempi esatti è complicato».
Più di 270 dipendenti a Ceresole d’Alba, altre decine nella filiale in Francia e negli Stati Uniti: questi numeri sono per lei un motivo di orgoglio o un elemento di responsabilità in più?
«Non abbiamo mai forzato le cose cercando sempre il consenso dei collaboratori, dunque vivo serenamente il mio ruolo. Nella mia mente la responsabilità è condivisa e dunque è meno gravosa. Il clima che siamo riusciti a creare in azienda è proprio quel che mi rende più orgoglioso. Per dire: alla Gai non c’è rappresentanza sindacale perché i nostri lavoratori non l’hanno richiesta, non ne sentono la necessità. Penso che la nostra forza sia che i nostri collaboratori si identificano con l’azienda e sono orgogliosi dei risultati che, tutti insieme, raggiungiamo. La selezione del personale è cruciale: da noi non esiste un organo esterno che controlli la qualità del lavoro altrui, la qualità dei particolari è controllata dagli esecutori di quei particolari».
Come si fa a fare la differenza in un settore apparentemente con così pochi margini di manovra?
«Facendo un prodotto di livello elevato e accettando che il prezzo possa essere un po’ superiore a quello dei competitori. Poi sta alla capacità e alla professionalità di chi presenta il prodotto dimostrare che i contenuti tecnici ripagano abbondantemente. Possiamo vantarci, per esempio, della longevità delle nostre macchine, anche perché siamo costruttori di tutti i componenti, dunque possiamo fornire una manutenzione pressoché infinita. Il nostro prodotto non ha scadenza».
Quanto ha contato per lei non solo portare avanti l’azienda di famiglia, ma farlo insieme ai suoi familiari, a partire da suo fratello Battista?
«Mio padre ha lasciato le redini dell’azienda nel 1972 e mio fratello mi ha chiesto di raccogliere il suo testimone. Fin da subito i ruoli sono stati precisati e concordati. Ritengo che nel nostro caso la linea continuativa non sia stata solo necessaria, ma virtuosa: la Gai è formalmente una società per azioni, ma nella sostanza siamo una società familiare, in cui le decisioni sono sempre state prese all’unanimità, e questo facilita molto il lavoro. Abbiamo consensualmente ripartito l’azionariato in modo che vadano pari percentuali ai successori: mio nipote Giacomo e i miei figli Guglielmo e Giovanni. Ormai sono loro a risolvere il 99% dei problemi, ma hanno la gentilezza di lasciarmi ancora operare. Anche perché, ahimè, non avrei altri hobby…»
È stata questa la chiave del suo successo e di quello della Gai: iniziare da quel che accade per caso e lavorare per far accadere quel che si vuole, guidati da una visione?
«La casualità è quella che gestisce la vita, a partire dalle scelte importanti che uno fa. Credo che la chiave del nostro successo sia nella determinazione e nelle scelte di principio, per le quali ci ispiriamo al modello creato da mio padre. L’azienda che ci ha lasciato contava una decina di addetti, quel limite e quella scala sono stati ampiamente superati, ma i principi restano gli stessi: rispetto del collaboratore, ricerca della qualità del prodotto, rispetto del cliente. Oltre all’insegnamento di mio padre, credo abbia avuto un ruolo anche la mia formazione al Politecnico: l’una trasmette una visione del lavoro come opportunità per realizzare i propri sogni e la propria personalità, non come un castigo (non a caso molti dei nostri collaboratori provengono dall’Istituto salesiano); l’altro abitua ad affrontare con un certo rigore i problemi».
Quanto e in cosa la Gai Macchine Imbottigliatrici assomiglia all’uomo Carlo Gai?
«Lavoro alla Gai dal 1969 e dal 1972 ne sono il Presidente, dunque è inevitabile che l’azienda un po’ mi somigli. Ma non cerco la personalizzazione, anzi mi mette in imbarazzo. Ho diretto l’azienda per tanti anni, ma quello che è stato ottenuto è frutto del lavoro di tutti. Nell’invecchiare ci sono parecchi inconvenienti, ma anche qualche vantaggio e dunque si rivolgono sempre a me quando si parla della Gai, ma è solo perché sono il più anziano. Per quel che mi riguarda mi riterrei molto fiero se i miei figli potessero dire di me quel che io ho detto di mio padre: “Non ho toccato i suoi principi, ho solo adeguato la tecnologia”».
Nel 2021 la Gai taglia il traguardo dei 75 anni, avete in mente qualcosa per la ricorrenza?
«Dovremo rimandare a causa della pandemia, ma avevamo pensato a una giornata di porte aperte per festeggiare con i collaboratori. Ci sarebbe piaciuto; sa, alla Gai, amiamo anche fare festa».