Dal punto di vista della geolocalizzazione, la carriera di Marco Vezzoso parte da Alba, passa per Nizza e arriva fino a Tokyo. «Sono di origine albese, ho frequentato il Civico Istituto Musicale “Lodovico Rocca” di Alba», spiega il diretto interessato, «poi mi sono diplomato al Conservatorio di Torino, dove ho iniziato a insegnare in un istituto musicale. Nel 2012 ho vinto il concorso come titolare della cattedra di tromba jazz al conservatorio nazionale di Nizza e lì mi sono trasferito».
E il Giappone?
«Il Giappone arriva qualche anno più tardi, nel 2015, quando io e il pianista Alessandro Collina, con il quale collaboro tutt’ora, partecipiamo a un festival internazionale a Osaka e iniziamo a mettere le nostre radici in Asia, dove ci rechiamo negli anni successivi in modo regolare. Nel 2019 organizziamo due tournée in Cina, in primavera e in autunno. Avremmo dovuto essere a Tokyo anche qualche giorno fa, il 23 marzo, ma la pandemia ha cambiato i nostri piani. Non ci siamo però lasciati abbattere e abbiamo deciso di organizzare comunque una diretta “streaming” con il Giappone, che ha riscosso il successo che ci auguravamo».
Come mai il jazz italiano riscuote un così grande successo in Giappone?
«C’è una grande attenzione per tutto ciò che arriva dall’Italia. Appena usciamo ci accorgiamo che all’estero l’Italia gode di una reputazione molto migliore di quella che noi stessi le abbiamo mai attribuito. Il marchio “Made in Italy” viene recepito come sinonimo di qualità e desta vivo interesse. Non dimentichiamo che per il Giappone noi siamo un popolo esotico, veniamo da 15.000 chilometri di distanza. A questi fattori si deve aggiungere la curiosità innata del pubblico giapponese che in questi anni ho imparato a conoscere».
È un popolo così curioso?
«Sono attirati da tutto quello che non conoscono ancora. Ricercano concerti di artisti emergenti per capire se è un genere che a loro interessa, vivono con la mente aperta. Esattamente il contrario di quello che succede in Italia, dove ascoltiamo musica di cantanti che già amiamo e compriamo libri di cui stimiamo già l’autore. Esiste però un rovescio della medaglia: al nostro primo concerto a Tokyo ci dissero di non offenderci nel caso qualcuno a metà si fosse alzato, succede spesso ed è culturalmente accettato. I giapponesi non sono solo curiosi ma anche onesti: se non si divertono, se ne vanno»
Perché siamo meno curiosi?
«Qui soffriamo un po’ di pigrizia culturale. “Tanta bellezza uccide la bellezza” si dice in Francia, ovvero avere a disposizione tanta ricchezza, storia e cultura potrebbe averci tolto lo stimolo di cercare oltre alla nostra zona di comfort qualcosa che ci sorprenda».
Qual è lo stereotipo che si sente di abbattere sui giapponesi?
«Che siano rigidi e freddi, in realtà la loro è precisione. Un concetto che per noi mediterranei spesso è aleatorio. A livello lavorativo è un grande “plus” questa caratteristica»
E, al contrario, quale stereotipo, da italiano ha dovuto combattere?
«Quello che vuole gli italiani un po’ pasticcioni, sempre pronti a fare affidamento sul loro spirito di improvvisazione innato. Questo provoca a volte imprecisioni importanti».
Nella nostra mente, il jazz e lo spirito giapponese, sembrano mondi lontani. Succede che si incontrino con successo?
«Eccome, come in ogni Paese esistono eccellenti jazzisti. Questo genere nasce in America, ma ogni cultura si appropria del codice nella maniera in cui è in linea con la sua struttura mentale interna. Un italiano suonerà in modo diverso da uno spagnolo o da un finlandese perché parte da un differente background. Questa è la magia».
Tornando agli stereotipi, in “Italian spirit” voi infrangete quello che vuole il jazz una musica prevalentemente intellettuale mescolandolo con il pop e il super pop.
«Si tratta di un album di musica jazz perché ha una solida base di improvvisazione, ma misceliamo la nostra formazione classica con un tocco di musica etnica per realizzare brani pop. L’obiettivo? Fare avvicinare anche un neofita, fornire un ponte generazionale che parli al grande pubblico».
La collaborazione con il pianista Alessandro Collina dura da molto, qual è il segreto?
«Il rispetto reciproco, sul lato artistico e personale. Dopo l’intesa artistica è nata un’amicizia vera, spesso durante le tournée trascorriamo anche un mese insieme, lontano da casa e sarebbe impensabile se non avessimo stili di vita compatibili e soprattutto, sul lavoro, la stessa visione musicale».
“Se chiedi che cosa è il jazz non lo capirai mai”, diceva Louis Armstrong. Non sono sicura di aver capito cosa volesse dire. Secondo lei?
«Il jazz è una musica basata sull’improvvisazione, sulla contaminazione. Nasce da individualità differenti che però parlano la stessa lingua. Le faccio un esempio pratico. Immagini quattro ingegneri di nazionalità diverse che devono lavorare insieme ad un progetto: useranno gli stessi codici fatti di numeri e calcoli e così, comunicando su un terreno comune, porteranno a termine quel ponte. Il jazz usa in tutto il mondo la stessa lingua ma ognuno la interpreta in modo diverso e personalissimo. Da queste unicità che si incontrano i progetti nascono, muoiono, si sviluppano, vedono la luce oppure non appariranno mai al pubblico ma rimarranno nell’emozione dell’esecuzione. È più chiaro?».
Abbastanza…
«Allora le faccio un altro esempio. Suonare il jazz è come trovarsi al bar con persone che non abbiamo mai visto e scoprire interessi in comune così forti da creare subito quella connessione che ci fa sentire bene»
Chiarissimo! Quali caratteristiche bisogna avere per sedersi in quel bar, ovvero per diventare un grande jazzista?
«Non essere mai soddisfatti dei risultati raggiunti. Perseverare in una ricerca assidua. Mantenere un’apertura di spirito che permetta di lasciarsi ispirazione da tutto. Questo è il jazz».