«Non avevamo grandi voti, ma avevamo credibilità». Lo afferma Franco Revelli (all’anagrafe Francesco) riferendosi al Pci della provincia di Cuneo che si contrapponeva al dominio della Democrazia Cristiana.
A 40 anni di distanza, quei voti, pochi o tanti, non gli servono più, ma la sua credibilità è immutata.
Franco Revelli è una di quelle figure capaci di unire: si può non essere d’accordo con lui, ma è difficile non riconoscergli una statura politica e intellettuale fuori dal comune, rimasta tale anche oggi a pochi mesi dagli ottant’anni.
Componente del primo Consiglio regionale nel 1970, vicepresidente della Provincia, sindaco di Limone Piemonte, segretario regionale del Pci (contribuì alla formazione politica, tra gli altri, di Piero Fassino, Sergio Chiamparino e Livia Turco) “Cicci” Revelli è nato in piena guerra a Peveragno, «dove mia mamma di origine monegasca si era rifugiata con mio padre, professore di malattie infettive a Torino», spiega il diretto interessato, che poi aggiunge:
«Mia madre è morta giovanissima, quando avevo sette anni, quindi sono sempre stato con mio padre, in ospedale e in università. Ho fatto l’esame di quinta elementare con una preparazione famigliare, poi ho frequentato le scuole medie a Cuneo, presso il collegio San Tommaso, dai Gesuiti, che hanno fatto parte della mia formazione a Parigi e a Barcellona. Questa impronta dei Gesuiti è quella che mi ha fatto deviare dal mio futuro “scritto” da medico, come avrebbe voluto mio padre, per dedicarmi alle materie umanistiche, soprattuto alla filosofia».
E la politica?
«A Barcellona sono diventato un compagno di strada del Partito Comunista Catalano clandestino e poi sono approdato al Partito Comunista Italiano, ma da cattolico, non certo chiuso nelle miserie ideologiche di quelli che erano gli spiriti rivoluzionari dei partiti comunisti. Sono stato parte, invece, dell’interessantissima vicenda del Partito Comunista Italiano aperto ai cattolici, ai credenti e a tutti coloro i quali erano impegnati in una battaglia sociale per il riformismo. Successivamente ho aperto un’altra fase della mia vita nel settore privato, e mi sono avvalso di competenze che avevo acquisito in precedenza. I miei due grandi amori sono stati la Francia e la Spagna. Alla prima sono molto legato: nel mio periodo parigino ho conosciuto mia moglie, professoressa di filosofia, che è poi venuta in Italia e ha insegnato per molti anni al liceo classico di Mondovì».
Qual è stato il periodo più bello della sua vita finora?
«Considero sempre che il periodo più bello sia quello che sto vivendo. Ho 80 anni, ho avuto anche vicissitudini di salute che mi hanno provato, ho affrontato un tumore, ma io sono un innegabile ottimista e ho grande fiducia nell’avvenire. Il passato lo ricordiamo per quello che ci insegna per il domani.Non ho un grande avvenire davanti ma è come se lo avessi».
Come l’ha cambiata il fatto di dover affrontare un tumore?
«Questo tumore, oltre alla preoccupazione egoistica evidente, mi ha indotto a dire: bisogna combattere. Il tumore si vince con le cure, con l’aiuto dei medici, nel mio caso, quelli dell’ospedale di Cuneo, ma direi che molto dipende dalla fiducia e dalla speranza di chi prova a farcela. Durante i ricoveri cercavo di diffondere questi sentimenti tra i vicini di tumore naturalmente invitandoli a non darsi per vinti».
La sua vita privata è stata folgorante come quella politica?
«È stata una vita piena di momenti di gioia. Quest’anno io e mia moglie festeggeremo 50 anni di matrimonio e in mezzo secolo abbiamo mai litigato, se non per ragioni filosofiche: lei è una cartesiana impenitente; io un sartriano cattolico indefesso».