Nella vita di Beppe Grillo, cambiare è una costante. S’affaccia al mondo del lavoro come rappresentante, poi entra nella fabbrica di papà, s’iscrive a Economia, ma interrompe gli studi, diventa cabarettista quindi attore teatrale orientato su monologhi di denuncia o a sfondo ambientalista, ancora “blogger” e infine politico, capo del movimento Cinque Stelle. La succinta biografia chiarisce come l’ultima evoluzione, quella che fa discutere, sia in fondo in linea con il personaggio: perché tra le connotazioni del movimento, almeno all’alba, c’era il giustizialismo e adesso, invece, il leader si scopre garantista. Ovvio, sibilano in tanti: è cuore di papà. Perché il guru, in un video, si lancia in strenua difesa del figlio accusato d’aver violentato, con altri amici, una ragazza. D’averla afferrata per i capelli, fatta bere mezza bottiglia di vodka, costretta a rapporti di gruppo. Grillo si lamenta perché il figlio è finito sui giornali come uno stupratore seriale, chiede perché quei giovani non siano stati arrestati e deduce che quindi nulla è vero, tira in ballo un video che li scagionerebbe e rileva, a loro discolpa, la stranezza d’una denuncia presentata otto giorni dopo.
Ora, del suo addio al giustizialismo poco ci importa: da sempre siamo garantisti e riteniamo che tutti, compresi Grillo jr e i suoi amici, siano innocenti finché un verdetto definitivo non stabilisce il contrario, ci stupiscono semmai i toni e ci sembra grave e inopportuno il ricorso ai social ritenendo banalmente che la giustizia debba fare il suo corso e che la fiducia in essa debba essere custodita anche in momenti dolorosi e complicati. Basta inoltre spulciare i nostri articoli per comprendere quanto, a fatti e non solo a parole, combattiamo le gogne. Perciò non partecipiamo, pur in parte comprendendo, al coro che rinfaccia oggi attacchi politici giustizialisti rivolti in passato a chi aspettava l’esito di indagini o processi, e ci limitiamo a ricordare che l’autonomia e il lavoro dei magistrati debbano essere rispettati in ogni situazione.
Ci disturba tanto, c’infervora e indigna, invece il riferimento ai tempi della denuncia. Come se il ritardo fosse segno di consenso e non di terrore, di smarrimento, di vergogna, paura di ritorsioni. Non esiste un tempo massimo, ci sono donne che impiegano anni a elaborare, trovare la forza di confidarsi, sfuggire agli assurdi sensi di colpa che spesso le assalgono per essersi fidate del carnefice quando lo conoscono, superare il timore d’essere esposte a giudizi, di dover riaprire una ferita in un palazzo di giustizia. Grillo dovrebbe saperlo. E il fatto che lo ignori, da uomo di Stato, è terribile. Ancor di più se si pensa alla nuova legge sul codice rosso che raddoppia i termini per le querele, firmata dal suo ministro Alfonso Bonafede (giustizia) e dalla ministra alla Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, per altro avvocato della ragazza.
Suscita rabbia anche che in un minuto e quaranta di video Grillo non spenda una parola per la ragazza, per la sua angoscia e la sua solitudine. Perché se ha denunciato si sente vittima e merita, aspettando l’esito delle indagini, vicinanza, rispetto e comprensione per un’angoscia infinita. E ci avviliscono e innervosiscono le allusioni sul comportamento da cui dedurre fosse consenziente. Ci resta la sensazione di un passo indietro, perché davanti a indagini o processi per casi di stupro, già troppe volte, s’è cercato di trascinare le vittime.
Controverso, sempre
Ha fatto molto discutere la presa di posizione di Beppe grillo in merito alle accuse di stupro rivolte al figlio. Colpisce che il giustizialismo abbia lasciato spazio a un inusuale garantismo, ma soprattutto la poca empatia avuta nei confronti della presunta vittima