«Ho grande nostalgia dell’emozione provata quel giorno»

La canellese Marina Vietri vive e lavora a Oslo, dove ha contribuito a una scoperta contro i tumori

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Marina Vietri, originaria di Canelli, è una biologa che lavora come ricercatrice all’Istituto di Ricerca sul Cancro di Oslo. Insieme al suo team ha scoperto un dettaglio riguardo al nucleo delle cellule che ha fatto il giro del mondo scientifico, ed è destinato a fornire nuove speranze nella cura delle malattie oncologiche. Medaglia d’Oro del Re di Norvegia per la miglior tesi di dottorato del 2016, nel 2019 è stata premiata all’interno del format “I talenti” nel suo paese natale. Le manca il Piemonte e conferma, con un sorriso, come la proverbiale freddezza dei popoli nordici faccia sembrare anche noi sabaudi pieni di contagiosa voglia di socialità.

Cominciamo dall’inizio…
«Ho studiato biologia ad Alessandria, ma ho scritto la tesi di laurea all’ospedale San Raffaele di Milano; prima di finire avevo già un’offerta di lavoro in Norvegia e così sono partita subito. Avevo 26 anni. In Italia ci sono ospedali di eccellenza come il San Raffaele e non posso dire come sarebbe andata se fossi rimasta».

Da quanto vive ad Oslo?
«Sono in Norvegia dal 2008. Appena arrivata ho subito il classico “culture shock”, il trauma da cambio di Paese dato dalla grande differenza tra le due culture ed è stato complicato. Ma a Oslo si sta bene: è una città internazionale in cui è facile crescere i figli e trovare lavoro».

Torna spesso a Canelli?

«Quest’anno è stato terribile restare lontana dal Piemonte, sono tornata per fortuna in estate. Cerco di portare mia figlia, che oggi ha undici anni, in Italia ogni volta che mi è possibile. Mio marito è svedese e cerchiamo di farle passare del tempo in entrambi i nostri Paesi di origine».

Sua figlia è bilingue, quindi?
«Di più: parla norvegese, italiano, inglese, e svedese. È brava, ha preso dal papà, io sono negata con le lingue straniere e dopo tanto tempo non sono ancora a mio agio con il norvegese, che di per sé sarebbe un idioma facile. A meno che, naturalmente, uno non abbia una testa dura come la mia… (ride, nda)».

Lei però ha scoperto qualcosa di molto interessante.
«Con il mio team negli ultimi anni abbiamo studiato una struttura particolare della cellula che si chiama “micronucleo”. Talvolta può succedere che un cromosoma esca fuori dal nucleo della cellula e formi, in autonomia, un suo micronucleo».

Perché questa scoperta è tanto importante?
«Perché le ricerche hanno dimostrato che quanto succede al livello del micronucleo ha conseguenze su alcuni tipi di tumori, che, come è noto, sono delle mutazioni anomale dei cromosomi. È come se un codice venisse sbagliato e poi riprodotto così, con duplicazioni, pezzi mancanti, traslocazioni. Nel 2011 era già stato scoperto qualcosa di nuovo: la “cromotripsi” che è la polverizzazione del cromosoma. Ovvero eventi particolari in cui un pezzo intero di cromosoma, invece di modificarsi parzialmente, si polverizza di colpo. Non solo, le centinaia di pezzettini che si perdono, infatti, si riattaccano poi a caso. È un evento incredibile. Prima del 2011 non avevamo la tecnologia per vederlo ma è qualcosa di drammatico, mai scoperto prima. Nel 2015 altri si erano accorti che questo avveniva proprio nei micronuclei. Noi abbiamo poi scoperto che il micronucleo collassa e come ciò avviene.»

Cosa succede esattamente?
«Il problema è che la membrana che lo protegge inizia ad avvilupparsi su sé stessa e porta a quella che abbiamo chiamato la “catastrofe del micronucleo”. Si tratta di una scoperta molto rilevante che è stata alla base di una serie di ricerche internazionali ancora in corso che da qui hanno preso il via».

Quali sono le ragioni di questo vostro successo?
«Nella scienza conta molto anche la fortuna. Nel 2015, avevamo scoperto come la membrana del nucleo della cellula venisse riparata. Esattamente nello stesso giorno del nostro articolo, la rivista “Nature” ha pubblicato il lavoro scientifico che dimostrava che la cromotripsi origina proprio dai micronuclei. Durante quel progetto, noi ci eravamo già accorti che qualcosa non andava nella membrana del micronucleo, a differenza del nucleo.
Così abbiamo unito le due cose e ci siamo concentrati sul comprendere perché la membrana del micronucleo non si ripara e quindi perché si verifica questa catastrofe».

Qual è la parte più affascinante del suo lavoro?
«Le scoperte e le sorprese come questa. Se hai idee ben chiare su cosa cercare il tuo lavoro non è molto interessante, significa che è un campo già studiato da altri. Più rischioso è andare in cer­ca di nuove direzioni. L’altro aspetto che amo della ricerca è il fatto di avere sempre il supporto dei colleghi. La mia vita è molto lontana dall’immagine del secchione che sta solo con il suo microscopio. Si lavora in team, ci si confronta, c’è una sorta di entusiasmo quando ci si incontra».

Mi racconti il giorno della scoperta.
«Devo dire la verità: c’era nell’aria la sensazione che avessimo per le mani qualcosa di grande e informazioni che nessuno conosceva ancora. Queste sono le soddisfazioni che danno senso al lavoro di ricerca che può essere frustrante. Sono anni di lavoro in cui la maggior parte degli esperimenti purtroppo non funziona, per motivi tecnici o perché l’ipotesi iniziale era sbagliata. Questi progetti pubblicati hanno coinvolto me e diversi altri collaboratori per un totale di oltre dieci anni di lavoro. Ho un’immensa nostalgia dell’emozione di quel giorno. Abbiamo di fatto aperto un nuovo campo di ricerca, è stata l’emozione che ogni ricercatore vorrebbe provare almeno una volta nella vita».