La tragedia aerea di Superga lasciò un segno profondo in tutta Italia. Non solo chi seguiva il calcio, ma l’intera popolazione fu profondamente scossa da quell’episodio che annientò il Grande Torino. Cioè quella che era più di una squadra di calcio: uno dei simboli di un’Italia sconfitta che cercava di rialzarsi dopo le brutture della guerra. Che si aggrappava disperatamente ai suoi miti positivi, soprattutto sportivi, dai quali partiva la sua voglia di riscatto e ricostruzione.
Superga sconvolse la vita di molti, ma soprattutto la cambiò a un gruppo di giovani che furono costretti a sostituire il Mito. Quella squadra “Ragazzi” che fu chiamata sul grande palcoscenico per le ultime quattro partite di campionato di Serie A, con la morte nel cuore e gli occhi del mondo puntati addosso. Ritroviamo quelle emozioni nel racconto di Valerio Francone, margaritese d’adozione, figlio di Andrea, uno dei “Ragazzi” del Toro che il 15 maggio 1949 e per le domeniche successive furono in campo con la maglia granata.
Com’era quella squadra?
«Fortissima. Aveva vinto per due anni quello che oggi è il campionato Primavera. Un anno addirittura sotto leva: loro tutti classe 1930 e 1931, surclassarono quelli del 1929».
Suo padre che giocatore era?
«Una mezz’ala, un corridore che non si stancava mai. Piccolino, 1 metro e 67: lo avevano operato di adenoidi sperando che crescesse un po’ di più, ma niente. Era incontrista ma tecnico. Lo erano tutti, in quella squadra. In molti ricordano l’episodio di Mazzola che palleggiava con una moneta da venti e col tacco la spediva nel taschino. Ecco, i ragazzi erano spronati a fare ancora meglio: emulavano quella magia, ma con un doppio tacco».
Facevano “gruppo”?
«Sì, c’era un gran affiatamento. Papà era molto amico di tutti, ma in particolare di Beppe Marchetto, che era orfano, e spesso ospitavamo a casa nostra; e di Tony Giammarinaro, esule dalla Tunisia, che diventerà famoso per aver portato in Serie B l’Avellino da allenatore».
Che rapporto c’era con la prima squadra?
«Papà raccontava che andavano a vederli giocare ogni domenica, erano impressionanti. Facevano paura a tutti. Allo stesso modo, spesso i giocatori della prima squadra assistevano alle partite dei “Ragazzi”: papà ricordava sempre di Bacigalupo che si piazzava dietro la porta di Vandone e gli dispensava consigli continui».
Collaborazione e rispetto insomma.
«Sì, ma anche molta “fame” da parte dei giovani. Nella partitella del giovedì non li facevano mai giocare contro: i ragazzi erano molto competitivi, non mollavano un colpo. Molti ricordano l’episodio tra Mazzola e Ferraris, lo stopper della squadra di papà: entrò duro su Valentino, che reagì con uno schiaffone».
Era un calcio più “vero”?
«Erano gli uomini a essere più veri. I giocatori avevano tutti un altro lavoro. Gabetto e Ossola avevano il bar Vittoria; mio nonno lo frequentava, dopo gli allenamenti li trovavi alla cassa o a giocare a biliardo o a carte con i tifosi. Papà ricordava sempre di quando Mazzola piombò all’improvviso, di sua volontà, nel loro ritiro a Ceresole Reale. Rapporti puliti, belli».
Suo padre era affascinato da qualcuno in particolare?
«Erano tutti fenomeni: Rigamonti, Ballarin marcatori, Maroso terzino moderno, Castigliano, Loik che correvano come pazzi… E poi Mazzola: era dappertutto. Per mio padre era secondo solo a Di Stefano. Ma ce n’era un altro ancora».
Chi?
«Bacigalupo. Con Mazzola era probabilmente il più rappresentativo. Assieme a Giammarinaro, mio papà fece da picchetto alla sua bara. Mi battezzò Valerio in sua memoria».
I “Ragazzi” come appresero dello schianto di Superga?
«Furono tra i primi a sapere. Erano al Filadelfia, avevano appena concluso gli allenamenti quando arrivò la telefonata. Mio padre e un compagno partirono in Vespa e cercarono di raggiungere il luogo dell’incidente, ma c’era già tantissima gente. Gli ultimi metri li fecero di corsa, ma furono fermati».
Ne parlava della tragedia?
«Non riusciva a capacitarsene. L’anno successivo allo schianto solo pochi furono confermati. Se avesse continuato la storia del grande Torino, pian piano forse si sarebbero inseriti tutti sull’ossatura della prima squadra».
Come fu andare in campo quel 15 maggio?
«Molto particolare, emozionante. Papà fu impressionato dal silenzio innaturale che c’era all’ingresso in campo».
Che ricordo resta di suo padre?
«Un po’ la sua figura ha pesato, sulla mia carriera calcistica. “Non è forte come il padre”, dicevano sempre. Ho giocato al Bacigalupo con lui presidente, veniva a vedere le mie partite, ma lì ero un “suo giocatore”, non suo figlio. Quel “Baci” era diventato come il Filadelfia per il Toro. Era “casa”, ci passavamo i pomeriggi. Quella società era una famiglia, dove si stava bene tutti assieme. Dinamiche che purtroppo, nel calcio di oggi, non esistono più».