Al Premio Ancalau 2021 si troverà anche il tempo per parlare della lingua e dei particolari modi di dire che costituiscono le pietre angolari di quella particolare civiltà che ha dato vita agli “ancalau”, i coraggiosi inventori e creatori di imprese che da Bosia e dalla Langa in generale hanno con la loro inventiva dato impulso e continuano a darne all’economia e al lavoro. La terrà il professor Piercarlo Grimaldi, antropologo di fama, già rettore dell’Università di Pollenzo e avrà luogo nel “boschetto degli alberi seduti”, un nuovo piccolo spazio creato per l’evento di Bosia recuperando un angolo divenuto nel tempo una vera e propria discarica, oggi recuperato grazie al lavoro dei volontari e in omaggio alle tematiche ambientali focus dell’evento 2021. Porterà il suo contributo di vita, esperienza e ricerche anche Primo Culasso, cultore e lessicografo della lingua langhese e autore di preziose opere sulle parole e i proverbi (Rastlèire, vocabolario con circa 12.000 lemmi, Piantra-lì, racconto della vite e del vino di una volta, Dësgropte, proverbi e modi di dire di Langa e Roero).
«Vorrei prevenire il pubblico da due possibili fraintendimenti. Primo: non sarà una lezione cattedratica ma una conversazione amena e rilassata. Secondo: il “boschetto degli alberi seduti” è come dice il nome un piccolo boschetto, non la foresta amazzonica, i nostri ospiti non dovranno temere di smarrirsi» scherza Silvio Saffirio, uno dei protagonisti dell’evento.
“Parlandone da vivo, Parole di pietra dei paesi di Langa” è il titolo dell’intervento di Piercarlo Grimaldi, il quale ha condotto studi e ricerche riguardanti le feste, i riti e i miti che definiscono i ritmi del calendario contadino. Ha progettato sistemi multimediali per l’organizzazione critica delle fonti iconografiche antropologiche e ideato musei riguardanti le forme e le pratiche della festa e processi produttivi tradizionali.
Professor Grimaldi, “parlandone da vivo”, che momento sta vivendo il dialetto?
«Per certi versi, il sapere della tradizione della nostra lingua natale si sta esaurendo, ma ha una grande preziosità che non possiamo disperdere e lasciar morire. È chiaro che il dialetto lo parliamo ancora, ma le formularità, ovvero gli elementi fondamentali, strutturali del nostro discorso dialettale, sono modi di dire e saperi proverbiali che non conosciamo più. Come l’espressione “parlandone da vivo” per l’appunto. Ormai è sempre più difficile incontrare persone, anche del mondo contadino, che sappiano spiegarne il significato».
Lei sì, però…
«Quando si faceva la veglia funebre per la morte di una persona, di notte si era soliti esplicitare i pregi del defunto, ma bastava pronunciare la formula “parlandone da vivo” ed ecco che si era autorizzati a “dirne male”. Non era un “parlar male per parlarne male”, era che, in onestà di comunità, si devono dire le cose come stanno. Se si vuole tramandare la storia, non si può tramandarla falsa. Finché ne “parli da vivo” puoi dire le cose, quando finisci, chiudi la parentesi linguistica e non puoi più parlar male. È un’area franca in cui si scrive la Treccani della comunità orale».
La tecnologia sembra in qualche modo aiutare l’oralità
«Il digitale ci ha fatto pensare che ritornasse in auge l’oralità. Un anno di teleconferenze ci hanno fatto comunicare attraverso parole e gesto e parole più gesti fanno l’oralità, che ha permesso all’uomo di evolversi per milioni di anni. Questa oralità, però, ora non serve più a trasmettere il passato al presente; nemmeno gli anziani ne hanno memoria. Un conto è un patrimonio di conoscenze condivise raccontato dai nonni, dai genitori, dalla comunità; un altro è leggerle sui libri, come se fossero nozioni come tante altre».