Il castello di Miradolo lo celebra come artista a tutto tondo

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«Ci sono due anime che si specchiano nel castello, così come ci sono due anime nell’architetto Paolo Pejrone: una espositiva, l’altra rustica, agricola». Roberto Galimberti, curatore per la Fondazione Cosso, in­sieme a Paola Eynard, della mostra all’interno del Castello di Mi­radolo, nel pinerolese, dal titolo “Oltre il giardino. L’abbecedario di Paolo Pejrone”, ci racconta un percorso partito il 15 maggio che resterà aperto al pubblico per un anno. «Perché, proprio come l’orto curato dall’architetto, anche la mostra sarà stagionale e cambierà nel corso del tempo».

Dottor Galimberti, come è nato questo progetto?
«Un anno e mezzo fa, prima che la pandemia cambiasse il mondo, siamo partiti dall’idea uomo-natura per provare a tracciare un percorso espositivo. La mostra all’interno del castello è un tentativo di in­staurare un dialogo tra interno ed esterno, lavorando così su due punti di vista: uno di taglio più concettuale e l’altro, quello del giardino, più pratico. Si sviluppa così un’esposizione che si dipana in maniera versatile, oscillando dai grandi temi a quelli di natura rurale, snodandosi at­traverso grandi opere del passato».

Come è strutturata concretamente la mostra e in quale senso avete scelto, come filo conduttore, il termine “abbecedario”?
«L’esposizione ruota intorno a tre percorsi: i testi, dei racconti sonori attraverso cui verranno raccontate le piante e una parte video, in cui l’architetto Pejrone, in rigoroso disordine alfabetico, utilizza delle lettere per affacciarsi sui temi più vari, da quelli prettamente naturali a quelli dal profilo filosofico. Ecco quindi che l’abbecedario diventa uno strumento della narrazione; senza dimenticare, naturalmente, che l’architetto è anche un uomo di parole, rivolto da sempre alla scrittura e alla ricerca».

Da ormai più di un anno abbiamo dovuto imparare a convivere con la parte più feroce della natura, il virus. Come si inserisce questo evento spartiacque nel vostro racconto?
«L’albero preferito dell’architetto è la quercia, un albero associato a un tempo lungo, mai frettoloso: allo stesso modo, mi sembra che questa fase ci abbia insegnato a cercare un tempo diverso con la natura, più lento. Il nostro giardino si porta dietro un messaggio, che può essere letto in maniera trasversale rispetto ai recenti, drammatici, eventi: il giardino si apparecchia per il futuro ed è un “andare con”, mai “contro”, un segno tangibile del procedere della vita. Così come l’orto dell’architetto, che al centro mette l’acqua, è un simbolo di rigenerazione e di nutrimento; al contempo, diviene un filo con un passato e con dei saperi antichi che si stanno smarrendo. Ecco allora il nostro tentativo di rendere di nuovo fertile la memoria».

Scelga una sola parola del vostro abbecedario per raccontarci l’esposizione.
«Ne scelgo una cara all’architetto, la “convivenza”. Da legare, nel nostro piccolo, al parco e al suo rapporto con l’opera dell’uomo, a quelle due anime di cui parlavo precedentemente; ma che va vista, in ottica generale, come un ponte tra l’essere umano e la natura, che non possono fare a meno di convivere».