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«La montagna ci ha insegnato a scalare gli 8.000 della vita»

L’alpinista Nives Meroi racconta la sua passione per le ascese: «È un cammino nato sotto i piedi»

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Supereroine e supereroi. Persone che compiono imprese tanto straordinarie da sembrare dotati di poteri eccezionali. Eppure così umani, come Nives Meroi, tra le maggiori alpiniste della storia: insieme al marito Romano Benet ha scalato tutti i 14 ottomila, senza l’uso di ossigeno supplementare né di portatori d’alta quota. La prima coppia in assoluto a riuscirci. Sabato 12 giugno alle 21.30, la scalatrice sarà a Ca­val­lermaggiore in piazza Baden Powell per l’incontro dal titolo “La montagna sacra: il rapporto con l’alta quota” che apre la rassegna CuneiForme di Progetto Cantoregi e Le Terre dei Savoia, appuntamento in collaborazione con Fiera Piemontese dell’Editoria di Caval­ler­mag­giore.

In che modo è nata la passione per le salite sul tetto del mondo?

«È un cammino nato sotto i piedi. Abbiamo iniziato con l’alpinismo sulle montagne di casa, da ragazzini: leggevamo i libri dei grandi scalatori sulle gesta himalayane ma non ci passava per l’anticamera del cervello di fare cose del genere. Il passaggio è avvenuto per caso, quando, nel 1994, sia­mo stati invitati a partecipare a una spedizione organizzata da don Arturo Ber­ga­maschi, un sacerdote di Bologna, grandissimo viaggiatore, per il versante Nord del K2. Sapevo di avere un bagaglio di esperienza maturato sulle Alpi ma non conoscevo l’alta quota, così mi sono detta: “Provo. Metto un passo dopo l’altro, arriverò fin dove ce la farò”».

Innegabile che i risultati siano stati eccezionali, ma ci sono stati anche momenti difficili? Come li avete affrontati?
«Sono stati di generi estremamente variegati: dalle criticità date dal tempo atmosferico alle condizioni della parete o nostre, alla conciliazione dei tempi delle spedizioni con la vita quotidiana, perché non siamo mai stati professionisti: Romano gestisce un negozio di articoli sportivi, mentre io adesso mi dedico anche alla scrittura, ma prima ero un’impiegata. È la montagna che in­segna a fare un passo dopo l’altro senza scoraggiarsi, a far fronte alle contrarietà con pazienza e umiltà: ci ha dato questi strumenti fondamentali per attraversare anche le prove vere, gli ottomila della vita, come la malattia di mio marito, che ha reso necessari due trapianti di midollo e quasi cinque anni trascorsi negli ospedali».

Qual è il motore che spinge a raggiungere le vette?

«La curiosità e la voglia di bellezza, che non è solo la forma della montagna, la linea del percorso di salita o il paesaggio, ma soprattutto la gioia del camminare insieme».

Però la montagna presenta sempre dei rischi. Come li gestite?
«Siamo artisti nell’arte della fuga senza vergogna. Quando ti rendi conto che c’è un pericolo troppo grande, puoi rischiare o tornare indietro. Noi siamo tornati indietro tante volte: in questo modo puoi avere un’altra possibilità per ritentare, mentre se vai avanti non lo sai. Serve anche eliminare i pensieri non funzionali al raggiungimento dell’obiettivo principale, che per noi è sì cercare di arrivare in cima, ma prima di tutto l’integrità della cordata».

In che senso la montagna è sacra, come da titolo della serata in programma a Ca­vallermaggiore?
«Per tutte le popolazioni che vivono alle pendici delle montagne, queste sono sacre: non solo dimora degli dei, ma divinità esse stesse. È giusto che ci avviciniamo nella giusta ma­niera a quei luoghi, ecosistemi talmente delicati che la nostra presenza può essere devastante. Da lì arriva tutta l’acqua potabile che permette di vivere a milioni di persone a valle: se viene inquinata la sorgente, il disastro può essere totale. An­­che in questo senso dobbiamo rispettarne la sacralità».

Quali sono i prossimi traguardi per una coppia di alpinisti da record come la vostra?
«Abbiamo idee, progetti e sogni anche per la prossima vita. Saranno l’età e gli acciacchi a porci dei limiti, ma gli obiettivi non mancano. Nel­l’immediato futuro ci sono le Alpi, non il Karakorum, perché quelli sono Paesi poveri dove non c’è l’assistenza sanitaria che abbiamo qui. Non sarebbe giusto andare là e rischiare di contagiare qualcuno o usare bombole di ossigeno, mentre non sono disponibili per i residenti di quei posti che si ammalano».

Articolo a cura di Adriana Riccomagno

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