Nel suo percorso professionale c’è la direzione della piattaforma web Il Post, ma anche un libro scritto con l’ambizione di fotografare un’epoca. Luca Sofri lo ha scritto nel 2006, il titolo era già un programma: “Playlist, la musica è cambiata”. Con l’ambizioso e complicatissimo intento di mettere ordine alla produzione musicale dei precedenti trenta-quarant’anni, Luca Sofri ha cercato anche di raccontare l’evoluzione della nostra società con l’ingresso nel terzo millennio. Proviamo a capire se la musica è cambiata ancora.
Direttore, non deve essere stato facile catalogare un mondo così variegato come quello musicale. È così?
«È stato un tentativo di realizzare una selezione. Fare di più non sarebbe stato oggettivamente possibile, era un compito difficile. Bisognava scegliere poco di molto, formula che potrebbe sembrare un po’ rischiosa soprattutto se applicata con un approccio superficiale o da poco esperti».
La musica è materia governata dai gusti personali, ha scelto basandosi sulle sue esperienze?
«Sì, ho fatto tutto in base alle mie preferenze. In quegli ambiti dove non ero troppo esperto, mi sono documentato. È stato nel complesso un lavoro divertente, ho riempito molti vuoti e altrettanti buchi. Ho sopperito con mille informazioni trovate nei libri, con il ripasso dei grandi classici. Per conoscere a fondo molte grandi band, ho dovuto studiare».
Ha trovato autori o brani che non conosceva?
«Certamente. E ho scoperto anche grandi amori, per esempio è stato così che sono diventato un grande fan degli Steely Dan: grazie a quegli approfondimenti. Fino a quel momento non li avevo ancora conosciuti e apprezzati».
Che cosa ha cercato di evidenziare nel libro?
«Ho raccontato la storia dei cantanti che in un certo momento hanno saputo distinguersi anche con una sola canzone, caratterizzando un’epoca. Una volta era la normalità. Ma negli anni precedenti alla pubblicazione del libro, avevamo appena assistito alla fine del disco inteso come supporto fisico, la fine stessa degli Lp e delle raccolte. Secondo uno spartito culturale che stava cambiando radicalmente e che ha cancellato anche la chiave rock e pop».
E poi che cosa è accaduto?
«È accaduto che per via digitale abbiamo assistito a un ritorno del singolo e della canzone. Da una parte si è disgregato il disco nella sua vecchia accezione, sono rimaste le singole canzoni. La cosa strana è che la musica non si è mai data una misura, gli Lp potevano avere una durata di 30 minuti come di un’ora. E anche adesso che non ci sarebbero limiti di misura, i dischi sono legati per abitudine a certi vecchi standard».
Possiamo paragonare questi cambiamenti a ciò che è accaduto nel mondo dell’informazione con i giornali?
«In un certo senso, sì. Continuiamo a leggere sul digitale i quotidiani nella stessa forma che è legata alla carta, quella di sempre, in formato cosiddetto tabloid. Eppure, ci sarebbero altre opportunità. Alcune innovazioni sono state tentate ma con scarso successo, le esperienze di lettura restano legate alle vecchie abitudini. Io ad esempio apprezzo gli ebook, lo scorrimento a me piace, però so bene che nella maggior parte dei casi le persone preferiscono la carta».
Torniamo alla musica: il panorama è cambiato anche perché ci sono meno talenti? Oppure è semplicemente mutato il contesto in cui gli artisti si muovono?
«Nella musica non mancano i talenti. C’è stato un grande cambiamento rispetto alla mia generazione o a quella precedente, quando si sviluppò la musica leggera, il rock, il pop. Da un lato padroneggiare la musica ora è più facile per un quindicenne, ma come fa a portare qualcosa di nuovo? Una volta per i musicisti era più facile inventare nuove tendenze».
È un problema tipico della musica?
«La musica ha bisogno di fare riferimento ad alcuni standard, mentre nelle arti visive per esempio è più semplice sovvertire i parametri. Si può sperimentare. Nella musica una cacofonia è comunque qualcosa che non piace, che non si può sentire. C’è un limite».
Veniamo al web: in cosa cerca di differenziarsi Il Post rispetto agli altri media?
«Da quando esiste Il Post, abbiamo sempre cercato di introdurre contenuti diversi all’interno di una struttura tradizionale, perché in realtà sono pochi quelli che lo fanno. Certo, siamo un giornale online, ma lo sono tutti ormai. Cerchiamo allora di avere un atteggiamento sempre attento, prudente e chiaro per distinguerci, anche se sono caratteristiche che dovrebbero essere proprie dell’informazione in generale».
Il mondo come abbiamo visto, è molto cambiato. La pandemia lascerà ulteriori strascichi. Che prospettive si immagina che avremo di fronte una volta lasciato alle spalle il virus?
«Non saprei indovinare le prospettive, ho una scarsa visione in questo senso. Come tutti, mi auguro di uscire da questa situazione al più presto. Non so fare previsioni, qualcuno magari ci azzecca, io però non faccio pronostici. Direi che il problema non è tanto quello di prevedere ciò che accadrà, quanto il fatto di prendere atto dell’impossibilità di farlo. E, quindi, ciò che conta è sapersi sempre adattare, essere preparati a ogni evenienza. Poi si possono fare mille riflessioni ed è quello che piace a noi del Post che, per esempio, con Baricco abbiamo segnalato l’anomalia del tempo che non torna a dove si era interrotto, prima delle chiusure, e che cozza con le aspettative di molti».
È un tema che abbiamo ripreso proprio su queste pagine. A proposito, conosce le Langhe e la provincia di Cuneo? Ci è già stato?
«Nelle Langhe ho molti amici, però non le ho frequentate abbastanza. In questo potete considerarmi un po’ come gli americani che hanno una sorta di venerazione nei confronti della Toscana: ammiro le Langhe e sogno di poterci venire, prima o poi».