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«Oggi le persone possono vivere più vite diverse»

In occasione del Premio Ancalau, Elena Granata parlerà di come fare per “ri-abitare il territorio”

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Si chiama “Premio Ancalau” ma non è soltanto un premio in senso stretto, di quelli che esauriscono la propria funzione con la periodica consegna di riconoscimenti ad esso legati. Al contrario, tutto ciò che accadrà nella giornata di domenica 20 giugno a Bosia sarà a suo modo un omaggio. Non mancheranno le targhe, gli attestati, consegnati nel corso della giornata, ma per il pubblico sarà premiante anche il poter assistere agli approfondimenti in programma, perché ogni appuntamento è pensato per regalare spunti di riflessione interessanti, secondo quello spirito di intraprendenza sen­za supponenza che contraddistingue i veri “ancalau”.

Tra gli incontri inseriti nel programma (che presentiamo nella sua interezza nel box sotto), spicca per attualità la lectio magistralis “Ri-abitare il territorio”, che avrà come relatrice la professoressa Elena Granata, do­cente di Urbanistica al Poli­tecnico di Milano. IDEA le ha chiesto di anticiparne alcuni punti.

Professoressa Granata, la pandemia pare aver acceso in alcuni l’interesse a vivere altrove rispetto alle grandi città. È una tendenza destinata a continuare anche dopo?
«In questi mesi probabilmente abbiamo anche sopravvalutato questo slancio, considerandolo come un essere disposti a vivere decisamente e radicalmente altrove. In realtà, molto dipenderà non solo dai fenomeni di esclusione dalla città, ma anche da quanto i territori si attiveranno per trattenere le persone».

In che senso?
«Si ragiona sul fatto che le persone decidono singolarmente, sulla base delle loro preferenze, ma si riflette poco sulla necessità di una risposta an­che da parte dei territori a do­mande del tipo: “Come trattengo questi potenziali nuovi cittadini?” “Cosa gli offro perché possano essere lusingati nel rimanere qui?”. D’altra parte, lo stesso ragionamento si può fare per le città, le quali si interrogano pochissimo a ri­guardo, perché danno per scontato che alla fine tutto tornerà come prima. Ma, alla luce di questo anno e mezzo, i cittadini sono e saranno meno in­dulgenti, perché l’aspettativa di qualità di vita è cresciuta».

Qual è l’elemento nuovo che permette di pensare di poter ri-abitare il territorio?

«Avere disconnesso, in alcuni casi radicalmente e per sempre, il luogo di vita e di lavoro. È un fatto storico: nessuna decisione politica lo avrebbe potuto ottenere; ci è riuscita la pandemia. Ma si può essere dei confinati anche lavorando in “smartworking” in uno splendido casale nelle Langhe. Il luogo non fa l’abitare, di per sé. Per questo, alla base del ri–abitare deve esserci un progetto, un percorso, una visione. Il senso di appartenenza a un luogo che è bello, con la sua storia e il suo cibo non può più bastare. Oggi serve qualche forma di attività che permetta di andare oltre l’immaginario della teca. Dob­biamo uscire dall’idea della conservazione, del mantenimento dei valori del passato, rispetto ai quali occorre essere dissonanti. Al­trimenti continuiamo a ripulire i gioielli di famiglia, senza andare da alcuna parte. La mia sensazione è che ci sia grande fermento, ma che, allo stesso tempo, stia­mo ancora troppo comodi».

Come si fa a non sedersi sul fermento e a trasformarlo in qualcosa di concreto?

«Dobbiamo rendere i nostri paesi più abitabili e ospitali (anche sotto il profilo lavorativo) per le nuove generazioni. Abbiamo una grande responsabilità per il futuro dei nostri territori, che non è conservare quello che abbiamo avuto, ma immaginare quello che dovrà essere».

Qual è il punto da cui partire per farlo?

«La possibilità di vivere altrove ha il suo fondamento nella connessione, infrastrutturale e digitale. Sulla prima, in fondo, si può chiudere un occhio, ma la seconda è imprescindibile; è il discrimine per poter continuare a vivere in “smartworking” nei prossimi anni. Chi si attrezzerà prima per assicurare questo benefit avrà la capacità di trattenere nuovi cittadini. Pochi amministratori hanno capito che questo è dirimente».

E quindi che rischio si corre?

«Di buttar via un anno e mezzo, a causa di una forte resistenza al cambiamento».

Sono possibili vie di mezzo tra il restare e il tornare?
«I territori che hanno un turismo di eccellenza come le Langhe dovranno pensare a un modello ibrido che non è più solo vacanza, ma non è neanche trasferimento. Ci so­no margini su cui si può lavorare per reincentivare una presenza diversa. Tra il trasferimento in pianta stabile e il “mordi e fuggi” di una visita lampo penso ci sia uno spazio progettuale molto interessante che si basa su una constatazione: oggi la gente può vivere due o tre vite diverse».

BaNNER
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