Soave: «In difesa delle fondazioni»

Il presidente della Fondazione CrSavigliano: «Il territorio ha bisogno del nostro supporto»

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Professor Sergio Soa­ve, quali sono le pro­spettive im­me­diate per la Fon­da­zio­ne Cassa di Ri­sparmio di Savigliano di cui è stato confermato presidente?
«La nostra Fondazione, che ha ancora più del 60% della proprietà delle azioni della Ban­ca, avrebbe qualche titolo a ragionare sul proprio futuro, con la dovuta attenzione al fatto che la legge, in accordo con l’Associazione delle Cas­se di Risparmio e il Ministero di Economia e Finanza, spinge alla cessione delle quote stesse, che non dovrebbero superare il 30%. La ragione è comprensibile e anche condivisibile: si vuole evitare che le fondazioni vengano coinvolte negativamente dalle perdite o dai fallimenti delle banche. Ma così facendo, si mette a repentaglio proprio il principio per cui nell’Ottocento nac­quero le Casse di Ri­spar­mio di cui sono proprietarie. Noi cerchiamo una strada che ci faccia uscire dalla contraddizione».

E cioè, come rispondete?

«Abbiamo un consiglio generalmente orientato a fare in modo che, attraverso il legame con il territorio, da un lato gli utili della nostra Cassa di Risparmio non vadano ad alimentare la speculazione di gruppi lontani, dall’altro che una parte consistente dei di­videndi ricada attraverso la nostra opera in funzioni sociali e nella solidarietà».

Ed è possibile questa quadratura del cerchio?
«Guardi, per fortuna abbiamo un presidente dell’Acri piemontese come Giovanni Qua­glia e un presidente nazionale, già rettore del Politecnico di Torino come Francesco Profumo, che guidano il mo­vimento. Hanno risposto po­sitivamente ai nostri appelli e oggi posso dire che siamo vicini ad avere un rapporto con loro e con la Fondazione Crc di Cuneo per valutare sinergie che, attraverso una diversa composizione del capitale sociale della nostra piccola, ma rigogliosa banca, possano accompagnarci nell’accidentato cammino dell’economia globale».

Eppure il ruolo delle fondazioni, anche post Covid, resta importante.
«Importante ma non ancora riconosciuto. La tendenza prevalente, come vediamo, va verso le grandi aggregazioni. Però stanno maturando altrove risposte contrarie. Negli Usa, dopo la crisi 2007-2008 causata proprio dal fallimento di grandi banche, sono nati più piccoli e controllabili istituti finanziari; in Germania e in Austria, dove il concetto di cassa di risparmio è nato, c’è una legislazione specifica. Questa presenza, minore e molecolare, più vicina alle conoscenze e alle esigenze del territorio, può essere la seconda linea del rapporto tra cittadini e banca».

Avete già superato qualche ostacolo…
«Per noi, ma anche per le grandi fondazioni, è stato un brutto colpo quello degli anni scorsi per cui sui dividendi si è applicata la stessa tassazione riservata alle imprese con finalità di lucro. Per essere chiari, su un milione di euro di dividendi che noi avremmo dovuto ricevere per associazioni e progetti dei nostri territori, lo Stato ce ne prendeva più di un quarto. Dopo una battaglia intensa della nostra associazione nazionale, siamo almeno ora riusciti a dimezzare la percentuale ritenuta, ma sono sempre grandi cifre che vanno a finire nella fiscalità generale».

E contro il paradosso delle grandi banche lontane dal territorio?

«Se oggi uno va in una banca, magari una ex cassa di risparmio che ha dovuto cedere a grandi gruppi industriali, non trova più le persone di prima ma un addetto di grandi e lontane centrali di co­mando, dove un algoritmo decide la tua sorte. E se tu sgarri di un centesimo, non puoi avere il prestito. Ora, anche noi abbiamo dei rischi come quello possibile del clientelismo; ma se riesci a contenerlo, agisci con una comprensione più profonda delle cose; sai se ci si può fidare di un cliente che ti chiede aiuto, perché conosci storie e vicende umane che nessun algoritmo potrà mai comprendere».

Il Governo Draghi può traghettare l’Italia verso un futuro migliore?
«Lo spero proprio, perché Draghi è una di quelle eccellenti personalità che è una fortuna avere al servizio del proprio paese, però i governi hanno a che fare con i parlamenti. La larga coalizione che lo sostiene mostra continue fibrillazioni determinate dai sondaggi settimanali. Spe­ria­mo non arrivi a sfiduciarlo, anche perché le riforme per avere dall’Europa i soldi della ripartenza post Covid sono molto impegnative e riguardano i nostri eterni problemi: un’evasione fiscale non comparabile con altri paesi, forme assistenziali buone di principio, ma mal governate, una burocrazia pesante, una giustizia di tipo castale che spaventa».

Il Cuneese può ancora rappresentare un esempio positivo?
«Siamo in un’enclave dove il senso delle istituzioni è più forte che altrove. Il rapporto tra amministrazione politica ed economia è più sano. I corpi intermedi reggono bene. E regge ancora, per rimanere nel nostro campo, il presidio delle casse risparmio, delle casse rurali, di credito cooperativo o private locali. E poi c’è stata una classe politica che complessivamente, in cento anni, ha fatto fronte a problemi tutt’altro che secondari. Faccio un solo esempio: la costruzione dell’acquedotto delle Langhe, un’impresa quasi da epoca romana che ha estinto la grande sete delle colline. Ma pensiamo anche alla capacità di non lasciarsi travolgere dall’impetuoso sviluppo urbano degli anni ’60. Certo non tutto è andato liscio ma, per fare un paragone, nel Veneto (il famoso Nord-Est) lo sviluppo è stato assai più disordinato e casuale, se non caotico e stravolgente. Proprio tra pochi giorni sarà presentata una raccolta di quattro volumi, voluti dal decano degli economisti italiano, il professor Castronovo, che racconta come la nostra provincia sia uno tra i primi tre distretti economici europei, nonostante l’handicap ancora pesante di un’autostrada che dopo 25 anni di lavori non è ancora finita».

Più rete che altrove?
«Sì, più senso di un destino comune. E quell’autodisciplina che, almeno fino alla nostra generazione, c’è sempre stata. Certo, la eliminazione di fatto delle Province non ci ha agevolato. Di tutte le riforme da fare s’è fatta quella più sbagliata e vedremo se la nuova classe politica saprà trovare strade istituzionali compensative».