«Per ripartire occorre un nuovo patto di territorio»

La ricetta post Covid del presidente della Fondazione Crt Giovanni Quaglia

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Insieme: solo così si può ripartire secondo Gio­vanni Quaglia. Il presidente della Fondazione Crt e di Acri Piemontese, l’associazione delle 11 fondazioni di origine bancaria del Piemonte, si fa promotore di un “Patto della solidarietà” tra istituzioni politiche, im­prenditori e società civile or­ganizzata. Cuneese, classe 1947, ha alle spalle una lunga esperienza al vertice di società anche quotate, enti, istituzioni, associazioni culturali e organizzazioni non profit; ha ricoperto per 11 anni la carica di sindaco del paese natale, Genola (il più giovane primo cittadino d’Ita­lia, allora ventiduenne), è stato consigliere regionale e poi presidente della Provincia di Cuneo, dal 1988 al 2004. Lo abbiamo intervistato.

Quaglia, qual è la situazione delle fondazioni bancarie in questa fase?

«Nel 2020, col divieto dalle autorità monetarie alle banche di distribuire i dividendi, le fondazioni hanno avuto un calo di introiti, perché, ap­punto, non hanno potuto percepire i dividendi da parte degli istituti di credito conferitari. Una situazione che nei giorni scorsi si è sbloccata, perché sia a livello nazionale che europeo si è deciso che da settembre si potrà tornare alla normalità. Nonostante le fondazioni bancarie abbiano sofferto, le erogazioni sul territorio piemontese sono co­munque state mantenute in linea con quelle del 2019. Particolare attenzione è stata dedicata a consentire alle realtà aggregative e sociali a livello culturale e di welfare di rimanere in vita e di trasformarsi con strumenti mo­derni, perché se fossero morte durante la pandemia, dopo non sarebbero più tornate. Avendo permesso loro di sopravvivere, adesso si stanno rimettendo in moto e ce ne stiamo accorgendo, perché sono pronte a ripartire e lo stanno facendo».

Di che cifre parliamo?

«Negli ultimi quattro anni, dal 2017 al 2020, il sistema delle fondazioni piemontesi ha deliberato erogazioni di risorse per 1,14 miliardi di euro: 289 milioni nel 2017, 299 nel 2018, 279 nel 2019 e 273 nel 2020. Anche l’anno più difficile è quindi rimasto sostanzialmente in linea con i precedenti».

Quali sono gli ingredienti per la ripartenza?
«Innanzitutto, c’è bisogno di un nuovo “Patto della solidarietà” tra i famosi tre pilastri: istituzioni, imprenditori e società civile organizzata. Noi fondazioni possiamo es­sere al fianco di queste realtà per riaffermare i valori dell’integrazione, della coesione, della sostenibilità e dell’innovazione. Il punto da cui ripartire è il recupero della dimensione del lavorare in­sieme: del “noi”, della comunità, come sul nostro territorio si è sempre fatto. Ho in mente due episodi emblematici a questo proposito. Il pri­mo ad Alba, nei giorni immediatamente successivi all’alluvione del ‘94. Come presidente della Provincia sono stato chiamato dall’allora pre­sidente del Consiglio Sil­vio Berlusconi, insieme al suo ministro dell’Interno Ma­roni, a sorvolare in elicottero l’area della Ferrero: i dipendenti avevano lasciato le loro case invase dal fango e dall’acqua ed erano lì per spalare, perché sapevano che recuperare la produttività si­gnificava rinascere e ripartire anche a livello personale e familiare. L’altro a Cuneo, a Ferragosto del 1999, dopo l’incendio al reparto delle mescole della Michelin, avvenuto ai primi del mese. Ci siamo trovati Ottaviano An­selmino, allora presidente di Confindustria Cuneo, ed io ad aspettare il proprietario François Michelin che da Clermont-Ferrand veniva a monitorare la situazione. Era­vamo un po’ preoccupati, perché l’azienda stava ristrutturando la propria presenza in Europa e anche in altre zone d’Italia: ci chiedevamo se l’incendio sarebbe potuto diventare una scusa per ridurre la presenza anche da noi. Presi coraggio e glielo domandai. Mi rispose: “Presidente, il sito di Cuneo sarà l’ultimo a essere chiuso”. Perché? “Perché qui c’è una cultura d’impresa, un rapporto fra il territorio e i nostri collaboratori che non abbiamo trovato in tutto il resto d’Europa”. È la capacità di fare sistema: l’azienda non è la controparte, ma qualcosa che aiuta la vita, consente di mantenere la famiglia, di far crescere i figli».

Sembra ottimista per la ripartenza in quest’area: è così?
«Sul territorio si possono in definitiva attivare tre “c” che già sono insite nella sua attitudine: competenze, coraggio e capitali “pazienti”. L’o­biet­tivo primario è l’innovazione sociale in ogni ambito: impresa, lavoro, istruzione, cultura, welfare, ricerca, ambiente, promozione del territorio e green economy, contribuendo a pensare e a costruire un futuro attorno ai valori dell’integrazione, dell’inclusione e della sostenibilità. Un futuro in cui sia bello vivere, esserci e abitare, soprattutto per i giovani».

Spesso è chiamato a rilasciare commenti sui temi del suo lavoro, ma qual è la sua vera passione?
«Da sempre, la cosa che mi piace di più è stare tra la gente. Quando sono andato via dalla Provincia, qualche giornale ha titolato “Il Sin­daco della Granda”, una definizione in cui mi sono ritrovato. Poi, la lettura».

Ci consiglia allora dei libri per l’estate?

«“Enchiridion” di Epitteto (Nino Aragno Editore): dal filosofo dello stoicismo, non una teoria né una pratica, ma un “manuale d’uso” della vita, con preambolo e tradizione, mirabili, di Giacomo Leopardi. “Il terzo pilastro. La co­munità dimenticata da Sta­to e mercati” (Università Boc­coni), dell’economista indiano Raghuram Rajan, che insegna a Chicago: la riscoperta del valore della società civile organizzata con i suoi corpi intermedi, per costruire nuo­ve relazioni tra persone, im­prese e istituzioni. Ho letto an­che “Riscatto. Bergamo e l’Italia. Appunti per un nuovo futuro possibile” (Rizzoli) di Giorgio Gori. Inclusione, so­stenibilità, innovazione: tre valori per il cambiamento, secondo il sindaco della città simbolo della pandemia. In­fine, “Adriano Olivetti. Il so­gno di un capitalismo dal vol­to umano” (Studium) del professore di Economia Gior­gio Campanini, perché il progetto di un nuovo umanesimo dell’economia in una dimensione comunitaria è og­gi più attuale che mai».

Articolo a cura di Adriana Riccomagno