Un rancore grande all’apparenza irreversibile

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Cara Anna, provo a risponderti cercando di mettere in luce l’insensatezza stessa del serbare rancore. Per farlo, salgo come sempre sulle spalle dei giganti del passato.
Prima considerazione, ci­tando niente meno che Salomone: «Iniziare un litigio è come aprire una diga. Prima che la lite si esasperi, troncala». Ovvio che nel tuo caso, dopo tre lustri, non è più possibile arginare la situazione prima che degeneri. È già degenerata.
Ma è bene tenere a mente che, più passa il tempo, più le rotture diventano insanabili. A ciò si aggiunge una seconda indicazione da mai dimenticare, interpretando Marco Aurelio: «Le conseguenze del rancore sono molto più gravi delle sue cause». Capisco che per tuo suocero vedere il figlio continuare la sua attività sarebbe stato un motivo di grande orgoglio, ma sono altrettanto certo che, se a priori gli fosse stato chiesto di scegliere tra quello e l’affetto di tuo marito, non avrebbe esitato a propendere per il secondo. Invece capita piuttosto spesso che si finisca così, con un bilancio in passivo da entrambe le parti.
Alla fine della fiera, è meglio vedersi riconosciuta la bontà della propria posizione o guadagnare in serenità, propria e della propria famiglia? A me pare una domanda retorica…
«Sono troppo pigro per portare rancore!», diceva il bradipo Sid ne “L’era glaciale”, mettendo in luce una grande verità: il risentimento costa fatica e quasi sempre occorre più impegno a ignorarsi piuttosto che a cercare di sistemare le cose. E allo sforzo necessario per evitarsi oggi, in un domani più o meno prossimo, si aggiungerà il dolore per non aver fatto un passo indietro (o avanti, dipende da come la si vede) quando bastava alzare il telefono e dire: «Ciao, sono io. Come stai?», mentre a quel punto non si potrà che alzare gli occhi al cielo, sperando in una riappacificazione che non può più avvenire.
Non è già sufficiente?