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«Nella musica c’è la nostra vita lasciamo che scorra»

Il noto clarinettista Gabriele Mirabassi evidenzia il valore delle arti musicali, da intendersi come opportunità per instaurare una comunicazione privilegiata con chi ci circonda

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Le maestose sonorità che regala Gabriele Mirabassi con il suo clarinetto hanno il potere di evocare immagini tanto nitide quanto profonde. È così che quella casa con la polvere di gesso sul pavimento, rappresentata più volte insieme con Gianmaria Testa, prende forma e vive oltre lo spazio e il tempo.

Mirabassi, pensa mai a quella porta aperta narrata da Testa in “Pol­vere di gesso”?
«Ci penso spesso, anzi, spessissimo. Con Gianmaria ho suonato per oltre vent’anni: ci eravamo ritagliati uno spazio per esibirci in duo oppure in trio, insieme anche a Mario Brunello o Erri De Luca. Mi manca moltissimo e ancora oggi mi sembra impossibile andare in tour senza di lui. Gli abbiamo reso omaggio di recente, al Festival delle Do­lomiti, riproponendo le sue canzoni, cantate nell’occasione da Neri Marcorè».

Oggi lei è uno dei clarinettisti di maggior successo d’Italia. Ma com’è iniziato tutto?

«Per caso. La musica mi è venuta incontro in maniera spontanea e naturale. Non ho dovuto compiere delle scelte forzate. La vera folgorazione avvenne da bambino osservando la copertina di un disco di mio padre su cui era disegnata la silhouette di Johnny Dodds: era inginocchiato, con il clarinetto rivolto al cielo. Quell’immagine mi colpì profondamente».

Con il clarinetto, dunque, è stato amore a prima vista…
«Sì. Mi accorsi di questo strumento ascoltando le prove del complesso amatoriale di cui faceva parte anche mio padre. C’era il clarinettista e quel clarinetto lungo e nero, che a volte restituiva suoni ovattati e altre volte squillanti, aveva un fascino speciale».

Questa passione si è però ben presto trasformata in un impegno professionale, visto che a undici anni era già in conservatorio…
«Non ho mai percepito la musica come un lavoro. La ritenevo, e la ritengo tuttora, una compagna di vita. E le inevitabili difficoltà che si possono incontrare affrontando un percorso del genere sono gli aspetti che rendono la musica degna di essere vissuta fino in fondo».

Da bambino lei amava im­mergersi nei suoni della natura e perdersi nel canto degli uccelli. Quanto crede ab­bia influito questa sua pro­pensione ai fini della sua af­fermazione nel mondo del­la musica?

«Molto. Ma anche in questo caso è successo tutto per caso: io e la mia famiglia vivevamo in una casa di campagna isolata e d’estate, con la scuola chiusa, trascorrevo tantissimo tempo nel bosco, in compagnia del mio inseparabile binocolo che mi era stato regalato. Osservare gli uccelli nel loro habitat era qualcosa di straordinario. Lo è anche oggi: quando riesco a fare birdwatching in palude è per me la Festa di Capodanno…».

Quali sono le analogie tra ornitologia e musica?

«Il fatto di immergersi nella natura in punta di piedi, per non spaventare gli uccelli e non essere quindi avvertiti come un elemento ostile, è come la musica, soprattutto quando si lascia fluire l’improvvisazione. La musica è vita e bisogna lasciarla scorrere, occorre entrare in sintonia con lei, senza disturbarla, senza spezzarla… Non sempre si riesce a farlo bene, ma quando ciò succede, ecco che, allora, ci si sente realmente dei privilegiati».

Prova ancora queste emozioni anche oggi che è un musicista di successo?

«Sempre di più. Anche perché nei duetti a cui via via prendo parte si aprono delle possibilità comunicative uniche…».

È quanto accadrà nella rassegna “Jazz&Co.”, in cui si esibirà con Filippo Cosentino. Cosa dobbiamo aspettarci?

«Aspettatevi la magia di questo incontro, l’alchimia che nascerà dalla nostra prima volta insieme sul palco. Ho sentito parlare molto bene di lui. Non vedo l’ora di vivere questo nuovo incontro: del resto, come cantava Viní­cius de Moraes, “la vita è l’arte dell’incontro”».

BaNNER
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