«La mia versione di azzurro? Quasi malinconica»

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Colta, curiosa, gentile. Sono i primi aggettivi per raccontare di questa cantautrice poco più che trentenne con quasi cinque lustri di carriera all’attivo. Erica Mou, al secolo Musci, nasce a Bisceglie e cresce a Trani, la “perla dell’Adriatico”, città d’arte e bellezza che non può non lasciare il suo imprinting. Ascoltando i suoni e i testi delle canzoni verrebbe da dire che Erica è cantautrice di nicchia, ma poi proprio di nicchia non è. Basta scorrere la sua bio per rendersi conto della ricchezza e versatilità di un percorso che l’ha portata in giro per l’Europa, collezionando una nutrita schiera di premi e riconoscimenti.
E allora cominciamo da qui. Qual è il premio a cui è più legata? Intendo quello che ha impresso una svolta alla sua carriera?
«Il premio della critica “Mia Martini” vinto a Sanremo nel 2012 con il brano “Nella vasca da bagno del tempo”. Sono cresciuta ascoltando le canzoni di Mia Martini e quel premio lo avrei barattato anche con la vittoria».

Si considera una cantautrice intellettuale?
«Intellettuale no; intelligente piuttosto. Nel senso etimologico di comprensiva e aperta alle cose che mi succedono intorno».

Mi racconti l’ultima in ordine di tempo.

«La collaborazione con Con­cita De Gregorio che mi ha proposto di unirmi a lei in un progetto bellissimo: uno spettacolo dedicato a cinque donne del Novecento che hanno vissuto ingiustamente nell’ombra. Si intitola “Un’ultima cosa. Cinque invettive, sette donne e un funerale”. Sono Dora Maar, Amelia Rosselli, Carol Rama, Maria Lai, autrici della loro stessa orazione funebre attraverso parole proprie e la drammaturgia di Concita. E poi Lisetta Carmi, che è viva e quindi ha interagito in prima persona. Io sono stata chiamata a intervenire sul palco con le mie canzoni, sia originali che attinte alla tradizione, canti popolari, ninne nanne».

E ha usato anche il dialetto della sua terra…
«Sì, il dialetto è una lingua che ha una magia e una forza sotterranea e mi ha permesso di avvicinarmi in modo più diretto e profondo, anche sul piano metrico, alla soglia tra la vita e la morte».

Come ha conosciuto Concita De Gregorio?

«Durante un pranzo in Puglia. Gli incontri positivi della vita avvengono sempre intorno alla tavola».

Allora a proposito di incontri, ricordiamo quello con Cate­rina Caselli?

«L’ho incontrata a diciannove anni e ho fatto due album, le sono grata perché è stato un periodo fertile, di semina importante, in cui ho incontrato persone che sono tuttora nella mia vita».

Quando è nato il suo interesse per la musica?

«A tre anni, non andavo ancora all’asilo. Avevo visto una violinista in tv che si chiamava Erica e ho pensato che il destino di tutte le Eriche del mondo fosse suonare. La mia non è una famiglia di musicisti, ma di amanti della musica sì e non hanno mai fatto resistenza, anzi sono sempre stati di grande supporto».

Veniamo alla famiglia. È dello scorso anno il suo primo romanzo, “Nel mare c’è la sete”, dove emerge il ritratto di una famiglia tutt’altro che felice.

«Le famiglie al loro interno sono tutte variamente complicate, sono una piccola società. Io ho voluto raccontare il dolore della perdita che avevo provato in circostanze diverse da quella descritta nel libro. Ho cercato di traslare sentimenti veri in una storia inventata».

La scrittura per un autore di canzoni è fondamentale come la musica. Ma com’è nata l’idea di scrivere un romanzo? È vero che si è laureata su Italo Calvino?

«Su Italo Calvino autore di canzoni. Ho approfondito la relazione tra lui e Sergio Li­berovici, uno dei fondatori di Cantacronache, il gruppo di musicisti e letterati nato a To­rino nel ’57. Entrambi sono stati partigiani e hanno tradotto l’esperienza della resistenza in canzoni molto interessanti. Penso a “Oltre il pon­te”, “Dove vola l’avvoltoio”.

Tra tutte le canzoni scritte di suo pugno ci sono cover mol­to originali di grandi classici nazionali: una di queste è Azzurro, presente nell’album “Bandiera sulla luna”. Che reazioni ha suscitato?
«Nessuno ha battuto un col­po. Ma meglio così. Ci tenevo a dare una lettura che esaltasse un aspetto del testo rimasto un po’ offuscato dalla musicalità bandistica. A me ha sempre suscitato una certa malinconia: l’incapacità di inseguire i propri desideri, l’apatia di chi resta in casa quando fuori cambia la stagione. E poi cre­do che sia importante non imitare l’originale, che oramai è un inno na­zionale e non ne ha bisogno».

Ancora un salto indietro: a marzo 2018 esce il singolo “Roma era vuota”, seconda traccia di “Bandiera sulla luna”. Ad ascoltarla ora sembra un pronostico.
«Roma riesce a fare cose magiche in tempi non sospetti e questa canzone l’ho rivissuta durante il primo lockdown. Racconta di un sogno vero che parla di un distacco profondo. Mi ero lasciata con il mio compagno e la sera mentre attraversavo le strade de­serte scoprivo posti splendidi nel silenzio di una città che aveva terminato la sua funzione di museo. Roma ha questa capacità incredibile di passare dal grande caos alla quiete».

E siamo arrivati a “Nature”, il nuovo album uscito a quattro anni di distanza dal precedente, che contiene an­che brani in inglese e in dialetto. Il titolo stesso si può pronunciare in italiano o in inglese.

«Infatti. “Nature” è arrivato dopo un periodo di grandi trasformazioni, realizzato tra Roma, Londra, Tolosa, Mi­lano e la Puglia. Il titolo nasce in italiano come plurale di “natura” per indicare le diverse sfaccettature dell’animo u­mano. Il filo conduttore è che la complessità è una ricchezza e la semplificazione un gioco al ribasso. “Nature” è una parola bella perché ortograficamente resta invariata ma si può declinare in modi diversi. In inglese, nature, è riferito alla natura, all’ambiente, al mondo che ci circonda, e dovrebbe diventare metafora dell’atteggiamento umano; in francese è riferito all’essere naturali, senza artifici. Ma lo si può leggere anche in dialetto, che è magico, sintetico, diretto: in pu­gliese ha un significato legato alla sessualità, all’essere car­ne oltre a essere pensiero».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco