Il mondo dello sport e del giornalismo piangono Gian Piero Galeazzi. Frase letta cento volte, nei giorni del dolore: mai apprezzata perché ovvia, mai capita perché incompleta. Galeazzi lo piangono tutti, Galeazzi apparteneva a tutti: uno di casa e non semplicemente perché volto della tv, non basta il tramite d’uno schermo per entrare a far parte della famiglia, lui piaceva per la bonarietà e per il disincanto con cui s’affacciava sullo schermo, per la capacità di trasmettere le emozioni, per la competenza e la partecipazione, per l’enfasi sincera. È stato lui a cambiare per sempre la telecronaca, non più freddo racconto al massimo infarcito di commenti tecnici e dati statistici, ma tifo, sostegno, spinta, commozione, passione contagiosa, entusiasmo. Coinvolgimento, come testimonia l’“Andiamo a vincere” consegnato alla storia e forse dettato non solo dall’essere italiano, azzurro dentro, testimone e sostenitore, ma dall’essere stato campione di canottaggio, nel singolo e nel doppio, sfiorando addirittura le Olimpiadi messicane, sogno sfumato e probabilmente rimpianto unico di una vita fortunata all’epilogo di sofferenza, scandita da affetti solidi e da un lavoro così amato da non essere mai stato considerato lavoro.
Lui e gli Abbagnale, un binomio indissolubile, perché grazie a Galeazzi i fratelli d’oro del remo sono scolpiti nella leggenda dello sport nazionale eppure quando ne rievochiamo l’impresa, prima del loro sforzo, delle scie allungate sul sogno, dei muscoli tesi, dello scivolare possente delle prue pensiamo alla sua voce sempre più roca, al suo tono sempre più concitato e orgoglioso. Urla, però genuine. Nulla di artificioso, costruito, comunque eccessivo, un legame forte tra la sua rivoluzione e l’attualità di telecronisti senza misura che piacciono ai giovani e agitano la nostalgia di chi è cresciuto con guide calme e parole asciutte, pause studiate, modi gentili, eccezioni lievi.
Galeazzi ha cambiato il modo di fare una telecronaca e ha anche inventato un ruolo oggi di moda, importante in qualsiasi tv o “pay tv”: il bordocampista. Lo ricordiamo noi con i capelli bianchi, e lo scoprono i nostri figli su YouTube, fiondarsi sul terreno di gioco a fine gara, o negli spogliatoi addirittura, e strappare interviste a caldo ai campioni appena sbucati dal match, avvolti dall’ebbrezza di un successo o sprofondati nell’amarezza di una sconfitta, nella malinconia di un traguardo perduto. Però, diciamolo, con i bordocampisti nulla c’entra, perché un altro Gian Piero (all’anagrafe è così: non Giampiero come tutti ripetono) non esiste ma soprattutto perché è cambiato un mondo: quei calciatori erano più vicini a noi, meno divi e meno distaccati, non parlavano per contratto ma per voglia e rispetto verso i tifosi, e capitava si confidassero in mutande dopo un trionfo, zuppi di champagne come quel gigante che contagiava con un sorriso grande spesso all’ombra di un cappello a larghe falde. Gigante fisicamente, lo chiamavano Bisteccone: «Al Nord sarebbe un’offesa, da noi a Roma è affettuoso», spiegava, ma anche gigante per generosità, bravura, personalità, spontaneità. Qualità che dallo sport lo portarono all’intrattenimento, regalandogli ulteriore popolarità. Da un po’ non lo vedevamo, sapevamo che combatteva con gli acciacchi. Ci mancava già, figurarsi adesso.
Il gigante di tutti
Gian piero Galeazzi ha cambiato il modo di fare le telecronaca e non solo quelle. lui piaceva per la bonarietà e per il disincanto con cui s’affacciava sullo schermo, per la capacità di trasmettere le emozioni, per la competenza e per l’enfasi sincera