IL FATTO
L’innovazione tecnologica richiede nuove professioni e competenze inedite. La nostra scuola è in grado di garantirle? Lo studio dei classici penalizza la competizione sui mercati?
Dice il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che «il problema è capire se dobbiamo continuare a studiare tre, quattro volte le Guerre Puniche nel corso di dodici anni di scuola».
E ancora: «Occorre formare i giovani per le professioni del futuro, quelle di digital manager per la salute o per l’energia, ad esempio. Lavori che nemmeno esistono oggi».
Nell’agenda internazionale che domina la politica di questi tempi, oltre alla famosa transizione che dovrebbe accompagnarci verso un mondo più green in tutti i sensi, deve esserci un ampio capitolo dedicato anche allo smantellamento della nostra formazione culturale, visto che da un po’ di anni ormai assistiamo a un attacco istituzionale verso ciò che rappresenta la conoscenza classica, a favore di una presunta conoscenza tecnica. Come se le due competenze non fossero collegate. Come se non mancassero migliaia di esempi di manager di grande successo nelle materie tecniche con una preparazione basata proprio sugli studi classici. Massimo Gramellini, a questo proposito, ha citato proprio il premier Draghi.
Non sappiamo perché il ministro Cingolani abbia dovuto studiare così tante volte le Guerre Puniche, ma sembra un grave errore considerare tempo perso quello dedicato all’approfondimento storico, al mondo classico, ritenendo che sbarazzarsi di quelle basi culturali rappresenti il presupposto per mettere i nostri giovani ricercatori sullo stesso piano di quelli delle altre nazioni, sprovviste di una storia altrettanto ricca di pensatori, filosofi, poeti. In una parola: di artisti. Ma anche scienziati.
«Dobbiamo capire che l’innovazione è la strada per vincere tutte le sfide del futuro: dalla salute all’ambiente, alla manifattura sostenibile», afferma giustamente Cingolani.
Ma sono tutti ambiti nei quali innova meglio chi ha una conoscenza più ampia piuttosto che il nozionismo dei tecnici specializzati. Ovvero, chi ha una visione. Il Ministro tuona: «Se noi continuiamo a reclutare i ricercatori, gli innovatori, con le nostre metodologie non siamo negli standard internazionali».
Sarebbe forse sufficiente dare spazio ai giovani in tutti i campi. La politica (dominata dagli anziani) dovrebbe prendere coscienza di questo problema, che certamente non combacia con gli “standard internazionali”.
L’Italia ha un patrimonio unico. Questa è una peculiarità da custodire. È il Paese dei talenti e della bellezza, seppur di salute precaria, ma non significa che la soluzione per tornare in alto sia quella di buttare alle ortiche la conoscenza del nostro grande passato. Innovare sì, banalizzare no. Mai.