Giovanni Scifoni è uno di quegli artisti a cui non smetteresti di fare domande. Innanzitutto perché le risposte non sono mai scontate e poi perché ognuna di esse ti fa sterzare verso domande diverse da quelle che avevi in scaletta. È come quando per sbaglio clicchi su un link che non avevi previsto ma quando sei dentro ti andresti a leggere il documento completo.
Ora è in scena con uno spettacolo che aveva debuttato prima della pandemia, che sta registrando il “sold out” alla Sala Umberto di Roma. “Santo piacere”: così si intitola questo monologo con danzatrice (Anissa Bertacchini) diretto da Vincenzo Incenzo in cui Giovanni si mette a nudo con allegria e senza invadenza e, raccontando molto di sé, riesce a parlare di tutti. La performance resterà in scena fino al 19 dicembre; dal 26 al 31 continuerà con delle repliche aggiuntive. Dio e il peccato, la castità e la morale cattolica, la fedeltà e l’amore. Naturalmente si ride moltissimo, rassicurati del fatto che se ce la godiamo senza far male a nessuno, siamo assolti a priori.
Mi sono appuntata una frase: “La maggioranza di noi perde la fede perché non vuole grane sotto le lenzuola”. Ne è convinto?
«La verità è che spirito e corpo sono connessi, tutto è unito, invece noi tendiamo a separare, a dividere. I piaceri li ha inventati Dio, non il demonio. L’idea di castigare il corpo per liberare lo spirito arriva dalla dottrina gnostica e da certe eresie dei primi secoli del Cristianesimo secondo cui il mondo non sarebbe creazione di Dio, ma di un demiurgo cattivo. E di qui l’idea del peccato legato al corpo, non fare l’amore, non fare figli».
Addirittura? Sarebbe la fine del mondo!
«Io mi immagino il giorno in cui nessuno farà più l’amore, in cui non si farà più sesso perché il corpo sarà talmente tecnologizzato da non avvertirne il bisogno. Ecco, quel giorno, chissà, tra duecento anni, la Chiesa cattolica dirà che fare sesso è obbligatorio».
A un certo punto dello spettacolo dice: «Ho un sacco di problemi e oltretutto sono pure cattolico».
«Sono cattolico praticante e penso che sia tutto un grande gioco, come le carte. Si mischia la religione con l’ateismo, le religioni tra loro, i papi con i calciatori».
Molto divertente raccontare la sconfitta degli innovatori a proposito dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI come il rigore mancato di Paolo Rossi. È lui il Paolino che non ce la fa a segnare il goal della vittoria, vero?
«È lui. E nel 1968 vinsero i tradizionalisti, anche se erano 4 contro 14. Paolo VI era un intellettuale coltissimo, amico di Pasolini, di Moravia, ma quello era un periodo della storia complicato. I riformisti hanno perso, però poi sono nato io».
Un bel contrappasso. Mi sembra però che lei sia nato un po’ dopo…
«Sì ma sono il quarto di sei figli e mia mamma mi ha raccontato che la lettura di quel testo le aveva comunicato una grande apertura e un grande amore per la vita».
Al pubblico chiede in un amichevole sondaggio ad alzata di mano chi è ateo, chi agnostico, chi dubbioso. A questa domanda pochi alzano la mano e lei dice «bugiardi». Qual è il suo più grande dubbio?
«Il dubbio di Giuda, che è anche l’origine della crisi della mia vita di fede».
Il tradimento?
«No. Giuda si è impiccato non perché ha tradito, ma perché non credeva di poter essere perdonato».
Che cosa la tormenta?
«Faccio una premessa. Io sono stato in tournée per la prima volta con Paolo Poli, un artista che sapeva creare un mondo roboante di fatine di cartone, di principini di pan di zucchero. Paolo era ateo, ma con un grande amore per le tradizioni ed era più buono e generoso di me. Allora ho pensato che se chi non ha fede è migliore di me, a che serve la fede?».
Già, a che serve?
«La fede non ti aiuta a essere più buono ma a sentirti amato così come sei. Me lo disse un sacerdote e fu la chiave che mi riportò in asse».
Quindi la fede libera dal senso di colpa? La religione cattolica ha rimestato nei sensi di colpa.
«Il senso di colpa è terrificante, ma il vero credente ne è libero perché si sente amato».
Lei ne è libero?
«Sono pieno di sensi di colpa (ride, ndr)».
È fedele?
«Sì, e non credo si tratti solo di fortuna, anzi credo che quella della persona giusta sia una grande utopia, una frottola che ci raccontiamo. Non basta essere innamorati per non tradire, né il non esserlo porta per forza a tradire. Credo che la chiave sia la gratitudine, il sentirsi grato nei confronti della vita. La lussuria e l’invidia sono legate. Perché tradisco? Perché mi sento in credito nei confronti della vita e cerco nel tradimento un parziale risarcimento».
Come la mettiamo con l’invidia?
«Non vado a vedere spettacoli comici perché se sono più belli dei miei ci rimango male. Sono insicuro, mi servono conferme».
Cosa rappresenta il pubblico per un artista insicuro?
«La sala piena è una pacca sulla spalla insostituibile. Se hai acquistato il biglietto, sei uscito di casa, hai chiamato la baby sitter, hai cercato parcheggio per me, allora sei mio fratello, abbiamo fatto un patto di sangue».
In tv ha lavorato molto con Gigi Proietti. Chi sono i suoi maestri?
«Proietti mi ha trasmesso l’idea che la recitazione debba sembrare qualcosa di facile. Lui era un pallone in discesa, acqua che scorre su una lastra di vetro. Qualunque battuta gli usciva fuori con una semplicità incredibile e vederlo recitare era come vedere un trapezista che fa salti mortali e credere che sia facile. E poi voglio ricordare Pino Manzari, un maestro spirituale che mi ha insegnato a leggere le Sacre Scritture e Dostoevskij e a capire quanto teatro e quanta potenza narrativa ci sia in quei testi».