Anita Bo è una ventenne degli Anni ’30 del XX secolo. Avvenente e apparentemente frivola, si muove nel contesto dell’Italia del Ventennio con un’arguzia che cattura il lettore.
Già, il lettore. Perché Anita Bo non è una persona, ma un personaggio, nato dalla fantasia di Alice Basso, scrittrice ed editor che, noir dopo noir, sta facendo incetta di consensi e lettori.
Anita Bo vive in un mondo in cui il maschio è (o meglio crede di essere) il capo. Le ragazze come lei, però, sanno di essere il collo che quel capo possono farlo girare a loro piacimento.
In senso letterale, dal momento che la sua avvenenza è tale da non passare mai inosservata; ma anche in senso
figurato, poiché non sono rare le occasioni in cui fingono di assecondare gli uomini, mentre in realtà li manipolano a loro piacimento.
Dopo la fortunata serie di Vani Sarca, giovane ghostwriter appassionata di gialli che si trova sovente a collaborare in indagini di polizia, Basso, tra le più amate autrici italiane del genere giallo, ha intrapreso a raccontare le vicissitudini della torinese Anita Bo. Dopo “Il morso della vipera”, primo romanzo della serie e “Il grido della rosa”, uscito in primavera, i lettori sono in attesa del terzo capitolo, la cui uscita è prevista verso aprile-maggio. Ecco come la scrittrice che pubblica con Bompiani racconta il suo rapporto con personaggi e storie.
Alice, partiamo da una nota biografica. È giusto definirla una milanese trapiantata a Torino?
«A dire il vero, non vengo proprio da Milano-Milano e non abito a Torino-Torino. Vengo da Sesto San Giovanni e vivo ad Avigliana: da casa mia si vede anche la Sacra di San Michele. A Torino ho preso in affitto la mia prima casa da sola. Come tutti sanno, a poche cose ci si abitua come a vivere da soli: per me Torino ha rappresentato l’autonomia, la libertà, per questo le sono profondamente grata. E poi è una città che merita di essere infilata in un libro».
In effetti Torino ha una certa qual storia letteraria…
«E poi è pienissima di spunti, luoghi in cui ambientare scene di ogni tipo, relative all’oggi, ma anche del passato, come mi sono resa conto facendo ricerche sulla Torino degli anni 30. Qualsiasi scena tu voglia ambientare a Torino, sei certa di trovare il posto giusto».
A proposito di ambientazione, Anita Bo e gli altri personaggi della serie agiscono nel 1935, non il periodo più conosciuto dell’epoca fascista…
«Ho scelto quell’anno perché l’atmosfera è un po’ diversa da quella a cui siamo abituati noi quando pensiamo al fascismo. Quasi tutti i romanzi ambientati durante quell’epoca riguardano gli anni successivi, quando ci saranno le leggi razziali, il Minculpop, gli accordi che vanno in direzione della guerra mondiale. Lì si gioca a carte scoperte, mentre nel 1935 puoi permetterti di ritrarre personaggi che ancora non hanno preso una posizione, perché in quel periodo era plausibile non avere ancora un’opinione chiara. Specie le donne a volte avevano talmente tante incombenze a cui stare dietro che davvero non avevano tempo di occuparsi della politica, a meno che non gli venissero loro sventolate notizie eclatanti sotto il naso. Notizie eclatanti che nel 1935 ancora non c’erano. La guerra d’Etiopia sarebbe cominciata solo verso la fine di quell’anno. Il “contro” di questa scelta è che ogni volta in cui ho cercato una canzone famosa, un pezzo musicale da inserire all’interno del racconto, scoprivo, ahimè, che era successivo al 1935. Per fortuna che almeno Liala si era già data da fare scrivendo alcuni dei suoi libri…».
Parliamo delle donne principali delle due serie, Vani Sarca e Anita Bo. È difficile gestire due protagoniste così differenti?
«In effetti è stata una sfida. Anita è così diversa da Vani da farmi temere che la gente all’inizio non facesse amicizia con la nuova arrivata. Per fortuna i lettori ci mettono poco a capire che Anita è una che si batte per le cause giuste, è sveglia, le piacciono i gialli, non dà importanza al suo essere carina se non quando le serve per mettere nel sacco chi ha davanti. Quando ho iniziato a raccontare il personaggio di Anita avevo paura di scoprire di saper scrivere solo in un modo e quindi non riuscire a staccarmi dal modello di Vani, per esempio per quanto riguarda il senso dell’umorismo che caratterizza entrambe. Per fortuna, invece, il sarcasmo ha tante sfaccettature».
Lei è un editor (figura a cui si affida lo scrittore per la prima lettura del proprio lavoro, al fine che evidenzi errori, incongruenze e proponga suggerimenti, ndr) che si è dato alla scrittura. Venendo da quel mondo, non occorre essere doppiamente folli per cimentarsi con un romanzo?
«Da un certo punto di vista sei molto più sereno, perché hai passato un sacco di tempo a correggere libri altrui e quindi sai che le correzioni non vanno interpretate come una bocciatura, ma interventi volti a far migliorare il libro».
Però agli editor capiterà di vedere ottimi libri che non hanno avuto alcuna fortuna tra i lettori. Hanno chiara l’idea che la meritocrazia non è automatica…
«Vero, ma anche questo, se vogliamo, da un certo punto di vista è consolatorio, perché so già che le vendite non sono necessariamente in linea con il valore del romanzo e che ci sono libri molto validi che non hanno il successo che magari avrebbero meritato».
Com’è il rapporto di forza tra Alice Basso editor e Alice Basso scrittrice?
«Qualche anno fa era “90 editor e 10 scrittrice”, da un paio di anni a questa parte, se prendo in considerazione il tempo dedicato, direi “85 per cento scrittrice e il restante editor”. Nella scrittura, però, va contato anche tutto quello che ruota intorno, come le presentazioni, per esempio».
Per portare la scrittrice al cento per cento servirebbe la trasposizione della saga di Vani Sarca in una serie tv…
«Qualcosa nell’aria c’è, ma lo è da tanto tempo e non so se ne farà mai qualcosa…».