Insieme al ricercatore di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università di Torino Enrico Miletto, Stefano Tallia ha curato il volume “Vite sospese. Profughi, rifugiati e richiedenti asilo dal Novecento a oggi” (foto a lato), pubblicato dalla Franco Angeli Edizioni. In occasione delle presentazioni del volume, così come nella sua chiacchierata con IDEA, Tallia ha ribadito alcuni punti fermi del suo modo di affrontare la questione migratoria e il suo racconto da giornalista: «Seguo con grande interesse e convinzione l’attività dell’Associazione Carta di Roma (che si prefigge di dare attuazione al protocollo deontologico per una informazione corretta sui temi dell’immigrazione, ndr) e ho le idee molto chiare su come i giornali debbano occuparsi di questo tema. Noi giornalisti abbiamo una responsabilità sociale molto forte di fronte a una crisi come questa, che coinvolge centinaia di migliaia di persone, e ciò ci impone di prestare grande attenzione, anche ai termini che utilizziamo. Io, per esempio, da giornalista mi rifiuto di impiegare il termine “clandestino” perché corrisponde a una condizione dettata dalle leggi di un certo stato, ma non può essere indicazione di un reato o definizione di una persona. Trovo altrettanto inaccettabile la distinzione tra migranti economici e di altro genere, come se morire di fame fosse meno dignitoso e meno meritevole di aiuto che morire sotto un bombardamento. In quanto giornalisti abbiamo una grande responsabilità nel contrastare il linguaggio dell’odio, nel fare in modo che i luoghi comuni non si facciano strada nella società. Non siamo certo quelli che possono o debbono trovare delle soluzioni per risolvere i problemi legati alle migrazioni, questo spetta alla politica, ma dobbiamo raccontare con onestà questo fenomeno e non dimenticare che stiamo scrivendo o parlando di persone».