«Siamo stati fortunati, molto fortunati». Lo ripete più volte nel corso della telefonata, quasi come se ancora non ci credesse. E, in effetti, Maurizio Longo, consulente braidese residente da sette anni a Kiev, è stato supportato dalla buona sorte nel lungo viaggio compiuto per portare in salvo lui e la sua famiglia dalle bombe che stanno colpendo la capitale dell’Ucraina.
Vi aspettavate un attacco del genere da parte della Russia?
«Da mesi si parla delle tensioni nelle aree separatiste dell’Ucraina, ma nessuno si immaginava un attacco di tale portata. Tutti noi pensavamo che, nel caso fosse precipitata la situazione, il conflitto sarebbe rimasto comunque confinato in quei territori…».
Come avete appreso che gli attacchi erano imminenti?
«Un amico, al telefono, mi ha detto: “prendi tutto e vattene, perché stanno bombardando dappertutto, anche gli aeroporti”…».
Cos’ha fatto, allora?
«Io, la mia compagna e nostra figlia di 20 anni abbiamo organizzato un mini piano per fuggire. Le prime cose da fare erano il pieno di benzina per l’auto e le scorte alimentari: purtroppo, non siamo riusciti a fare né l’una né l’altra cosa. C’erano code ovunque. Così la prima notte l’abbiamo trascorsa nell’appartamento della palazzina in cui abitiamo. Non si sentiva nulla, c’era un silenzio irreale».
E il giorno dopo?
«Siamo riusciti a fare rifornimento e riempire di carburante anche una tanica aggiuntiva. Siamo anche riusciti a recuperare un po’ di cibo, ma non ci siamo messi in viaggio, perché avremmo rischiato di trovarci per strada nelle ore del coprifuoco».
Dove avete passato la notte?
«Dopo aver riempito in fretta e furia le valigie con maglioni e coperte e preso i nostri due gatti ci siamo rifugiati in un bunker allestito nei sotterranei di una palazzina vicina. Saremo stati in 80. Faceva freddo, ma c’era un fortissimo calore umano. C’era chi portava cibo, chi suonava, chi aiutava le mamme con i bambini. Mi ha colpito parecchio questo spirito solidale. E quasi non ci ha fatto pensare alle sirene antiaereo e ai boati delle bombe».
Poi la partenza.
«La mattina successiva siamo partiti. Siamo stati molto fortunati perché uno dei ponti da cui siamo passati, dopo poche ore, è stato chiuso. Abbiamo superato indenni anche diversi check-point. In uno ci hanno controllati per più di un quarto d’ora ma avevamo tutti i documenti in regola e ci hanno lasciati passare».
E una volta fuori da Kiev?
«Ci siamo affidati alle notizie che arrivavano su Telegram e abbiamo scelto strade meno battute e non toccate dal conflitto. Abbiamo fatto una tappa da amici in una zona più sicura dell’Ucraina e poi siamo ripartiti. In Ungheria ci siamo imbattuti nella neve e in una coda lunghissima. Siamo rimasti in auto per 28 ore consecutive. Infine, abbiamo raggiunto Bra, dove per fortuna ho una casa».
E ora?
«Stiamo cercando di organizzarci. Per ora il palazzo in cui abitiamo non è stato colpito, ma non sappiamo se e quando potremo tornare a Kiev. Siamo in contatto con la famiglia della mia compagna: suo padre e suo fratello non hanno potuto lasciare il Paese e ora devono difendersi dalle bombe…».
L’immagine che non riesce a togliersi dalla mente?
«Una su tutte mi ha profondamente colpito. È quella dei tanti uomini ucraini, di ogni età, che non potendo lasciare il Paese, hanno accompagnato le proprie compagne e i loro figli fino al confine, per poi tornare indietro a combattere. È stato straziante…».