Un innovatore. Lo ha dimostrato ogni volta che ha affrontato una nuova avventura giornalistica, peraltro in ambiti sempre diversi, dalla cronaca allo sport. Ora Carlo Verdelli affronta la sfida inedita (e con qualche insidia) di ridare slancio a un brand classico come Oggi, il “settimanale degli italiani”, proprio in un periodo contraddistinto da ulteriori difficoltà esterne al mestiere giornalistico. In carica da poco più di due mesi, il nuovo direttore del giornale fondato a Milano nel 1939, ci svela qualche dettaglio del suo lavoro dopo averci anche confidato di aver conosciuto il territorio di IDEA e di apprezzarlo particolarmente anche perché «ospita una delle poche aziende italiane che hanno saputo mantenere un ruolo centrale per la città di appartenenza, in questo caso Alba, che è rimasta la sua capitale. Una città che ha avuto la fortuna di veder crescere aziende come la Ferrero, che sono diventate giganti in campo mondiale, mantenendo però intatte le loro radici».
Direttore, come definirebbe fin qui la sua esperienza alla direzione di Oggi?
«Lei ha fatto il militare? Siamo praticamente al Car, in fase di addestramento. Come sempre, quando nel giornalismo si mette mano a un nuovo progetto, si tratta di un’esperienza entusiasmante. L’editore ci crede, puntiamo sugli antichi punti di forza del giornale, come storia e costume, adattando il concetto di rivista popolare ai nuovi tempi che viviamo».
Qualcosa che ha già sperimentato alla Gazzetta dello Sport?
«In realtà ho sempre cambiato tanto, anche quando sono stato alla Rai. Un po’ per mia vocazione: non che sia un iconoclasta, ma i tempi cambiano in fretta e un giornale deve adeguarsi sempre. A maggior ragione in questo caso, visto che siamo l’unico giornale generalista e popolare in Italia, vorremmo poter cambiare nel segno della qualità».
Deve però fare i conti con un’attualità difficile: come affrontare questo problema?
«Oggi cerca di raccontarla a modo suo, c’è sempre una chiave per stare nel proprio tempo. Ognuno ha una sua cifra, non si deve pensare alla concorrenza perché ad esempio i quotidiani dedicano ogni giorno molte pagine all’argomento guerra e noi non avremmo questa disponibilità. La nostra è un’angolazione diversa, ma tutto concorre a comporre un grande puzzle».
Che passa anche, inevitabilmente, dai social e dal web?
«Arrivando al giornale il primo febbraio scorso, avevo subito pensato al versante digitale. Ma devo dire che – e non per colpa di qualcuno – l’ho trovato un po’ sbiadito. Poco alla volta vedremo, assieme all’editore, come investire con intelligenza sul futuro oltre che sul presente. Un giornale è destinato all’edicola, ma ora dopo ora, deve essere presente su tutte le piattaforme. Oggi, in particolare, ha oltre ottant’anni di vita e il giorno in cui accadrà, vorrei lasciarlo con un futuro davanti, anche in un momento così complicato per l’informazione».
A proposito: come si racconta una guerra?
«Ci sono tanti modi, noi abbiamo fatto salire a bordo del nostro giornale commentatori del calibro di Ferruccio De Bortoli, Fabio Fazio o Liliana Segre. Io stesso ovviamente ne parlo. E poi ci sono i servizi fotografici e preziosi reportage come quelli di Francesca Mannocchi e di suo marito Alessio Romenzi, che è fotografo. Puntiamo l’obiettivo sempre sulle persone. Abbiamo anche dedicato quaranta pagine a Vladimir Putin, cerchiamo di raccontare al meglio chi è l’uomo che ha portato la guerra in Europa».
L’Occidente aveva forse sottovalutato la pericolosità di Putin?
«Non so se Putin sia stato sottovalutato, eventualmente non ne conosco le ragioni. Ma a un certo punto è diventato un leader in gravi difficoltà economiche e nessuno sa perché abbia alzato così tanto la posta in gioco, assumendosi tali rischi anche nei confronti del suo popolo. Tutto il mondo però ne pagherà le conseguenze. Con le guerre succede sempre così: le società si spaccano in due. Da una parte ci sono quelli che mantengono una dimensione sicura, dall’altra le persone che già prima si trovavano in difficoltà e che di solito vedono peggiorare drammaticamente la loro situazione. Profughi, nuovi poveri, persone sulla soglia della povertà: mi preoccupa molto la prospettiva di queste persone, sempre più numerose».
In fondo era una tendenza già accentuata prima ancora della pandemia.
«Ora è certamente destinata a lievitare. Da anni è questa la tendenza della micro e della macro economia, in Europa soprattutto. Questo uno-due tra pandemia e guerra renderà tutto ancora più difficile. Se è vero che, su una popolazione di 60 milioni, in Italia sono ben 5 milioni e 600 mila le persone che vivono in condizioni di povertà, ci si deve preoccupare del presente e ancora di più delle ricadute per il futuro».
Potrebbe accadere che, in conseguenza di questi avvenimenti, dovremo rivedere le nostre abitudini? Cambiare il nostro modello di vita?
«Sono un giornalista, non un sociologo e non spetta a me indicare una direzione. La pandemia è stato un evento imprevisto e imprevedibile che ha messo in ginocchio un mondo che, fino a quel momento, era lanciato a velocità folle verso il futuro. La guerra ora è qualcosa che è già in atto, non possiamo più domandarci come avremmo potuto evitarla, ma tutti ci chiediamo come e quando riusciremo a fermarla. Se finirà per cambiare la nostra realtà e le democrazie, è difficile stabilirlo. Quel che è certo, è che sono anni duri».
Tornando a Putin: questo leader che improvvisamente si è rivelato essere un mostro sanguinario, non era forse considerato, al tempo stesso, un interlocutore affidabile da parte del mondo occidentale?
«Non sono d’accordo, non credo che fosse considerato un partner affidabile. Non lo era prima come ovviamente non lo è adesso. Poi, le crisi difficilmente portano a esiti previsti o immaginati. Questa è la realtà e questo è il compito che spetta ai giornali: far capire ai lettori che cosa sta succedendo, con onestà».