Emergenza dentro all’emergenza. Come il tema dei disturbi alimentari che Fiorenza Sarzanini, vicedirettore del Corriere della Sera, ha affrontato prima in un podcast e poi in un libro. Partendo dalla sua esperienza personale.
Che cosa è accaduto durante la pandemia?
«C’è stato un disastro vero: molte famiglie si sono ritrovate e non si sono riconosciute. Magari i figli hanno preso coscienza della crisi dei genitori o dei rapporti complicati anche tra fratelli, ne è venuto fuori un cortocircuito non compensato dalla vita sociale, che non c’era».
Erano situazioni già latenti?
«Si è acuito il problema. E non solo per quanto riguarda il disturbo alimentare, ma anche per i fenomeni di autolesionismo. Avevo visto uno studio del Gaslini che riferiva di questa impennata di casi. Vedere e sapere che non c’è stata più accoglienza, che le famiglie nel periodo del covid erano state abbandonate, mi ha messo in allarme. Conosco figli di amici lasciati totalmente soli, perché i medici si occupavano dell’altra emergenza, allora mi è sembrato importante accendere il faro su un problema così grave».
Ed è nato il podcast dal titolo “Specchio”?
«L’ho realizzato con Chora Media assieme all’amica e collega Francesca Milano. Siamo andate nelle residenze, a Todi che è un po’ quella d’eccellenza. Il podcast ha avuto un successo inaspettato, probabilmente le famiglie si sono sentite comprese e appoggiate, hanno capito che poteva esserci una luce, a quel punto ho deciso che doveva nascerne un libro».
Qual è stata la scintilla?
«Un anno fa, il 17 marzo, è morto mio papà che era giornalista e mio maestro. Lui mi diceva sempre: se capisci che una storia merita di essere raccontata, devi impegnarti al massimo. Era arrivato il momento. Sono partita dalla mia storia, mi sono messa in gioco per dire che si può guarire, ho spiegato come. Nella vita si può sempre ripartire e, soprattutto, io conosco i meccanismi di quella malattia. Quando l’ho avuta, ero già grande e ne sono uscita da sola. Ora spero che il mio contributo serva a chi sta male, alle famiglie, le associazioni, per creare una rete e arrivare ai ragazzi con questo messaggio: se ti fai aiutare, puoi guarire».
La cultura dell’immagine: quanto incide?
«È una piccola parte del problema. Certo, si è amplificato con i social, che mettono in vetrina la magrezza, ma non è quella la molla anzi, il disturbo alimentare rappresenta una ricerca di attenzione. Chi sta male, ti dice che ha un problema: sono magra, non mangio e te ne accorgerai. Raramente le ragazzine lo fanno per diventare come le modelle, è una semplificazione. La molla scatta per problemi più profondi che vengono sviscerati rendendo evidente il male. Allora il corpo parla. E c’è un altro aspetto che si sottovaluta: tante ragazzine hanno paura di guarire, perché temono che poi nessuno si occuperà più di loro».
Quanto pesano le parole che si usano con questi ragazzi?
«Il punto è quello, nella sfera dei disturbi alimentari si pensa che chi ne soffre sia matto o faccia i “capricci”. Non è facile essere presi sul serio. Un altro problema è proprio quello dell’approccio, se dici “mangia!” a me che rifiuto il cibo, mi sento preso in giro. Poi c’è la morbosità di chi ti chiede: ma quanto pesi? Questi meccanismi coinvolgono anche i genitori. Ricordo che quando mi chiudevo in bagno, più mia madre mi diceva di uscire e più restavo dentro. I ragazzi ora hanno un problema legato alla mancanza di relazioni sociali, comunicano solo con messaggini e si sono inariditi. Si vedono tanti ragazzi – ma anche noi adulti – a tavola con i telefonini».
Lei come ne uscì?
«Quando mi sono ammalata io, 33 anni fa, tutta questa attenzione per l’aspetto psicologico o psichiatrico, non c’era e forse è stato un bene. Ma ero già grande, in una situazione diversa rispetto a chi ha 16 anni. La mia consapevolezza è cominciata nel momento in cui non mi sono riconosciuta in una foto, allora ho deciso di andare dal medico. A 16 anni non c’è la stessa prontezza. Io ho trovato un medico che non mi ha trattato come una pazza, mentre sento spesso di mamme che passano ore dallo psicologo e non so quanto sia utile. Comunque nel libro parlo di quello che so, non delle cure, racconto come ci si sente. Mi è servito per ottenere la fiducia dei ragazzi, si sono sentiti compresi e si sono aperti. Con i genitori di solito non succede».
Eppure è fondamentale parlarne…
«È una via d’uscita obbligata, devi anche riabituare il fisico ed è un percorso pesante».
Se non altro la pandemia ci ha fatto prendere maggiore coscienza del problema?
«Sì e speriamo nel bonus psicologico, un primo passo che conferma come questi problemi vanno trattati: sono malattie, non capricci».
Tra un’emergenza e l’altra, sta cambiando anche il linguaggio dei giornali?
«Pandemia e guerra hanno cambiato completamente il modo di fare giornalismo, che è diventato più di servizio e questo è davvero un bene. Cercare le notizie è importante ma anche occuparsi della vita delle persone lo è, specie quando in gioco c’è una posta così alta: migliaia di ragazzi hanno tentato il suicidio durante la pandemia. Il giornalismo non deve restare svincolato dalla realtà, ma rendersi conto anche di questa “guerra” delle famiglie con i figli, perché se non si dà voce a queste persone, non si capisce quale sia la vera emergenza e il lavoro diventa arido».
Fin qui il giornalismo si è creduto libero da responsabilità?
«Con la pandemia non lo è stato più. Quando ci siamo trovati chiusi in casa, ci siamo resi conto che dovevamo cambiare registro».
Il podcast è il media del momento?
«Per raccontare i disturbi alimentari ho scelto il podcast perché se avessimo fatto un documentario, oltre al fatto che difficilmente avrei convinto gli intervistati a mostrarsi, poi gli spettatori si sarebbero concentrati solo sull’immagine. Un podcast su questo argomento si basa invece sul racconto e sulla voce della persona che sta male».
Sono concetti che tornano nel libro?
«In più ho aggiunto la mia esperienza personale. Mi metto in gioco e racconto cosa è successo a me. Questo fa la differenza, sia per le famiglie e sia per i ragazzi. Io sono diventata vicedirettore del Corriere e posso dire di sentirmi realizzata, se ci sono riuscita nonostante quel problema che ho avuto, chi ci passa adesso mi deve credere…».
Verrà nelle Langhe a presentare il libro?
«Dovrò farlo, non sono mai stata ad Alba».