Quel fuoco sui versanti della Val di Susa, della Valle Chisone e delle valli canavesane, di tutti i territori piemontesi colpiti dai roghi negli ultimi mesi, non è solo un’emergenza della montagna.
Non è solo un problema che riguarda venti o trenta piccoli Comuni della periferia dell’impero.
Non sono solo dei boschi che bruciano con il fuoco che spinto dal vento si avvicina alle case e si mangia le ultime baite e gli alpeggi in quota.
Le drammatiche settimane vissute in quelle vallate è un ennesimo campanello d’allarme sulle quotidiane sfide dei cambiamenti climatici che toccano le Alpi, sulla natura che ha un corso incontrollato e che ci vede poco attenti, sul bosco che svolge delle funzioni che ora non sono più, ma anche su temi sociali, antropologici e istituzionali sui quali aprire gli occhi.
Le interconnessioni tra aree urbane e aree montane, rurali, tra città e montagna, tra centro e periferia, hanno toccato negli ultimi anni un punto molto basso.
Le Olimpiadi invernali di dieci anni fa sembravano aver aperto la possibilità di legami autentici e chiari. Gli eventi recenti confermano che così non è.
Le interconnesioni tra le vallate e il capoluogo finiscono per essere a totale svantaggio delle prime. Torino fatica a capire che quel bosco che brucia, ma quegli ettari frantumati e neri sono per Torino un problema.
Non assorbirà più anidride carbonica e dunque non sottrarrà uno tra i principali agenti inquinanti.
Non sarà più tagliabile e non rappresenterà più un valore per i proprietari. Non sarà un luogo dove fauna ed essenze vegetali possono rigenerarsi contribuendo alla biodiversità.
Tutto questo non solo a scapito delle valli, dei montanari e della montagna. Le conseguenze sono drammatiche per l’intero Piemonte, si può dire per l’Italia e per l’Europa, visto che le Alpi sono un polmone verde e il più grande bacino idrografico del Vecchio Continente.
Lo deve tenere ben presente chi vive a Mompantero, a Locana, a Roure, e allo stesso modo chi risiede in corso Vittorio Emanuele a Torino, o a Nichelino o a San Mauro.
Va spiegato nelle scuole, assieme a serie lezioni sui cambiamenti climatici, sullo spopolamento della montagna e sulla crisi dei ghiacciai.
È un dato sociale questo, che riguarda l’organizzazione delle comunità e i rapporti tra sistemi territoriali. Urbani e periferici.
Questi aspetti devono trovare spazio nella definizione legislativa e operativa dei servizi ecosistemici-ambientali, nella costruzione del loro valore e nel loro pagamento: la città riconosce i valori del bosco (protezione delle fonti idriche, assorbimento di Co2, protezione dei versanti, garanzia del paesaggio e della produzione di ossigeno, corretta gestione e selvicoltura…), li remunera con uno scambio che altri Paesi del Mondo (Brasile ad esempio) pongono oggi al centro delle loro politiche ambientali e sociali. Non possiamo non guardare allo scenario complessivo, ambientale e paesaggistico.
Abbiamo in Piemonte oltre un milione di ettari di bosco (diviso cinque milioni di particelle catastali!) che continuano a crescere, a invadere il prato-pascolo, senza una corretta gestione e pianificazione, senza un ruolo protettivo.
Il valore economico è anch’esso bassissimo, quasi irrisorio. Quei boschi sono dunque più facile preda del fuoco, appicciato non da “piromani”, bensì da “incendiari”, per dolo o per colpa.
Come spiega Giorgio Vacchiano, dottore forestale e membro della “Società italiana di Selvicoltura e Ecologia Forestale”, “la prevenzione è possibile e indispensabile, in quanto rende la vegetazione meno infiammabile tramite diradamenti del bosco nei punti strategici e interventi per eliminare il combustibile fine.
Non tutti gli incendi sono distruttivi, molti sono “radenti” e percorrono solo la superficie del suolo senza colpire le chiome degli alberi (e sono quindi i meno pericolosi)”.
La prevenzione si può e si deve fare. Lo impongono le condizioni ambientali e climatiche. La crisi idrica e la siccità sono strettamente connesse alla buona gestione di un bosco, tagliato correttamente ogni 25-30 anni, gestito (il bosco non è “sporco”, da pulire, ma da gestire correttamente).
Così si proteggono i versanti alpini anche dal dissesto idrogeologico, grande rischio e altra emergenza con i quali fare i conti (anche qui, con una Torino che capisca di più le dinamiche delle valli) se le prossime piogge saranno forti e continuative come quelle del novembre 2016.
Il Canavese ad esempio, dopo gli incendi che hanno interessato recentemente Sparone, Ribordone e Locana, nel Parco nazionale del Gran Paradiso, ha dimostrato dopo l’alluvione distruttivo del 2000 di aver imparato la lezione sul fronte del dissesto, con sistemi avanzati di monitoraggio e controllo dei corsi d’acqua.
Sul bosco però, come molte altre valli alpine piemontesi, ha fatto poco e oggi sono troppo pochi i Comuni dotati ad esempio di un “Piano forestale”, decisivo e necessario oggi per il recupero e la rigenerazione del bosco aggredito da fuoco, che ricrescerà più lentamente e che ha bisogno di corretta pianificazione.
Cioè, serve un pensiero, una capacità decisionale, un’idea di cosa fare sui versanti. E di cosa fare dei paesi montani che continuano a spopolarsi. Non servono solo soldi.
Un piano forestale comunale o intercomunale (fatto da un’Unione montana, come scrive la legge regionale) costa come due ore di volo di canadair.
Nel Psr 2007-2013 la misura 125 finanziava Piani forestali: una volta fatti, questi sono rimasti (senza un perché) fermi troppi anni prima dell’approvazione.
Così non deve essere per i nuovi Piani che verranno finanziati con il Psr 2014-2020, in particolare con le opportunità offerte dalla misura 16. Provando ad andare oltre le polemiche tra presenza o assenza delle istituzioni nel corso delle ultime emergenze legate agli incendi, è del tutto evidente che le “catene decisionali”, il chi decide e il chi avverte chi, sono fondamentali e devono essere trasparenti per tutti, in primo luogo per i sindaci, “front office” in particolare nei piccoli Comuni.
Quei sindaci, sarà pur vero che rappresentano solo 200 o 500 abitanti, ma sono anche alla guida di Comuni con centinaia di ettari di territorio da controllare e sono anche “sindaci” di migliaia di piante e di cinghiali e di caprioli. Hanno compiti di protezione civile e hanno come fondamentale interfaccia i volontari.
Nei paesi delle valli sono tanti i volontari, formati, carichi di passione e impegno per il loro territorio. Sono una forza, anche per la prevenzione.
Il Piemonte è tra le pochissime Regioni in Italia ad aver istituito vent’anni fa uno specifico corpo di volontari contro gli incendi boschivi, gli Aib.
Ma nella “catena di comando” anche loro hanno registrato qualche sofferenza e incomprensioni.
La Regione deve tornare ad avere la piena regia della gestione delle emergenze. La catena di comando deve coordinare Vigili del Fuoco – con i quali è stata stipulata una opportuna convenzione con la Regione – che a loro volta coordinano e lavorano con Aib, Protezione Civile, Croce Rossa e altri attori.
Nel caso dei Dos, vanno formate figure in loco che conoscano il territorio, strade, punti di riferimento e di rifornimento idrico.
Per quanto riguarda i vigili del fuoco, la Regione deve farsi portatrice di “un’istanza istituzionale” che nasce nell’Associazione, per poter avere un maggiore ruolo all’interno dei Comandi provinciali.
Si tratta di un problema “storico” mai affrontato e risolto. Non tutto può essere lasciato in mano a volontari, bensì è importante formare nuovi funzionari, avviare concorsi e inserire forze giovani.
La formazione è decisiva. In primo luogo all’interno dei Comuni e in particolare degli uffici tecnici (meglio se questi sono gestiti in forma associata nelle Unioni montane di Comuni) che devono essere pronti per la prima gestione in caso di emergenze. Rispetto ai mezzi, serve una verifica puntuale – promossa dalla Regione – tra i distaccamenti dei vigili del fuoco volontari del Piemonte, di concerto con il Ministero degli Interni e le Prefetture. Stessa cosa va fatta all’interno dei Gruppi Aib comunali (tornare a finanziare l’acquisto di mezzi, da parte della Regione, è molto significativo).
Per quanto riguarda le disponibilità di elicotteri, deve essere verificata la possibilità di lasciare un mezzo tipo un Aw412 a Levaldigi, ad esempio, dove le condizioni di decollo sono quasi sempre più favorevoli rispetto Alessandria e Torino.
La cultura della Protezione civile deve essere maggiormente diffusa. Con due necessità: esercitazioni nei Comuni, o a livello sovracomunale, e incontri con Aib, Protezione Civile, Vigili del fuoco, nelle scuole.
Devono essere strutturati e non “volontari”, con un programma stabile e continuativo promosso dall’Assessorato all’Istruzione della Regione Piemonte.
I Piani di protezione civile comunali devono essere sempre di più trasposti a livello sovracomunale: è importante che sia l’Unione montana ad avere un unico Piano di protezione civile per 5/10/15 Comuni. Questo serve a uniformare analisi, stato di fatto, procedure e soluzioni.
Questo percorso oggi è già incentivato dalla Regione grazie al bando per la gestione delle funzioni in forma associata (tra queste appunto la Protezione civile).
Vi sono poi anche altre risorse attingibili, come quelle delle Fondazioni bancarie. Da ultimo, il tema delle comunicazioni è fondamentale nelle emergenze: deve essere integrato quelle che sono le possibilità di parlarsi via radio tra Vigili del Fuoco, Aib e altre forze coinvolte nella risoluzione delle emergenze.
Allo stesso modo, tra i mezzi di comunicazione deve essere incluso Twitter, sistema che in tutto il mondo è uno strumento decisivo nel corso di calamità, quale strumento di collegamento tra le comunità e le forze dell’ordine. Dal 2017 il Corpo Forestale dello Stato è stato dismesso, personale e competenze sono passate in parte ai Carabinieri (sorveglianza) e in parte ai Vigili del Fuoco (lotta agli incendi).
Dopo la dismissione del Corpo Forestale, è recentemente stata attivata la Direzione generale Foreste p
resso il Ministero Politiche Agricole e Forestali, che è il soggetto in grado di garantire questo coordinamento. L’istituzione della Direzione è già stata scritta in Gazzetta Ufficiale, ma manca ancora la nomina ufficiale del Dirigente.
Così come manca la Legge forestale nazionale, in fase di ultimazione dopo decenni di attesa e gli ultimi tre anni di intenso lavoro. Si deve arrivare celermente all’approvazione. Rispetto agli operai forestali, questi devono essere coinvolti in condizioni ordinarie nel sistema Aib e Protezione civile.
Hanno importanti competenze tecniche e conoscenze del territorio elevate.
In caso di emergenza – incendi o situazioni di dissesto – sono fondamentali. Il loro lavoro “ordinario” deve essere funzionale alla gestione attiva del bosco, anche a fini economici-produttivi oltre che protettivi e preventivi. Ampliando le loro opportunità di azione, viene data loro la possibilità anche di remunerare indirettamente il loro impegno con una gestione forestale attiva.
La mappatura dei bacini idrici esistenti in quota, come la realizzazione di nuovi bacini è fondamentale. Anche di “soli” 10 o 20mila metri cubi d’acqua. Sono utilissimi per i mezzi di terra e per i mezzi aerei. Ogni Comuni dovrebbe averne uno.
Uncem ha fatto uno studio d’intesa con Regione Piemonte e Arpiet dove ha già individuato, sulle carte, l’opportunità di inserire 22 nuovi bacini idrici di piccole dimensioni, a uso plurimo, compreso quello in emergenza in caso di incendi.
Questo piano per totali 650mila metri cubi d’acqua potrebbe costare meno di venti milioni di euro, secondo i pre-studi di fattibilità che Uncem possiede. Vanno approfonditi e deve essere posta questa necessità della nostra regione all’interno del “Piano nazionale invasi” per il quale lo Stato avrebbe messo sulla Legge di stabilità 2018 oltre 3 miliardi di euro.
Nella prevenzione, e anche nella gestione post-incendi, vi è una componente innovazione molto importante. Innovazione tecnologica, prima di tutto. Come riporta “Quotidiano Energia”, la buona notizia è che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica sono al lavoro ormai da anni per contrastare in maniera più efficace i roghi e per alleviare l’impatto economico delle operazioni di soccorso.
La George Mason University in Virginia (USA), ad esempio ha pensato di sfruttare onde sonore a bassa frequenza per spegnere gli incendi senza utilizzare acqua o schiume.
L’idea si basa sul fatto che le onde spingono via l’ossigeno che altrimenti sarebbe carburante per le fiamme, che così si estinguono.
Dal Polo Meccatronica di Rovereto, invece, arriva “Fire Fighting Turbine”, tecnologia cilindrica progettata da Emicontrols (Gruppo TechnoAlpin di Bolzano) che spegne gli incendi creando un flusso d’aria con al centro dell’acqua nebulizzata.
In questo modo le risorse idriche necessarie diminuiscono, mentre il risultato non cambia, anzi migliora, visto che la superficie di fuoco colpita dall’acqua nebulizzata è maggiore rispetto a quella liquida.
Rispetto alla prevenzione, la sensoristica (a costi ormai bassissimi) e le telecamere termiche (con le quali equipaggiare uomini e mezzi) sono molto importanti. Le telecamere termiche, installate sugli automezzi, permettono di “vedere” attraverso il fumo, durante la guida, e individuare così i punti esatti dei focolai di incendio.
Sul fronte innovazione, le proposte non mancano. Matteo Tempestini, ingegnere informatico e creatore (insieme a Matteo Fortini e Andrea Borruso) ha ideato nel 2017 il progetto “Italia a Fuoco”.
Lanciata nel mese di luglio è una piattaforma online nata per la condivisione di informazioni sugli incendi che colpiscono il Paese.
Il progetto è basato sulla mappatura delle aree in fiamme o che sono già bruciate in passato.
Senza dimenticare la localizzazione delle basi operative con elicotteri e mezzi aerei antincendio.
I dati provengono dalle indicazioni degli utenti (che possono segnalare un incendio con un apposito modulo), ma anche dai database del corpo forestale, dalle amministrazioni locali e dal sistema europeo per le emergenze Copernicus, basato sia su rilevazioni satellitari che su segnalazioni da soggetti sul territorio o notizie da parte dei media. Negli interventi di spegnimento dell’ultimo mese, si è rivelato indispensabile il servizio webGIS sugli incendi boschivi in atto in Piemonte elaborato da Arpa.
L’app integra i principali dati e servizi in near real time disponibili per il territorio regionale, derivati da immagini satellitari, servizi cartografici, dati di monitoraggio.
A più ampio raggio, di grande utilità, vi è poi il sistema informativo dell’Unione europea dedicato ai roghi che ha messo a punto una serie di mappe interattive per monitorare la situazione. Si tratta dello dello European Forest Fire Information System (EFFIS).
Due sistemi che Sindaci e Amministratori locali devono conoscere, grazie a opportuni momenti formativi pensati con la Regione Piemonte.
Uncem li può promuovere. In conclusione, è evidente che nelle fasi di gestione del post-emergenza nei territori colpiti devono essere coinvolte le migliori “teste” capaci di dare supporto e fare concrete proposte per utilizzare bene le risorse che arriveranno.
Bene ha fatto la Regione Piemonte ha dichiarare lo stato di calamità naturale e a richiedere allo Stato 40 milioni di euro di risorse del Par Fsc.
Consapevoli che la legge 353 del 2000 obbliga, per almeno 15 anni, a mantenere la stessa destinazione d’uso dei territori colpiti da incendi, queste nuove risorse potenzialmente disponibili per il Piemonte andranno utilizzate bene, strutturando percorsi di pianificazione che coinvolgano (in tavoli divisi di territorio, più un tavolo complessivo regionale con tutti i territori coinvolti dall’emergenza incendi) gli Enti locali (Comuni e Unioni montane di Comuni), i tecnici della Regione Piemonte del Settore Foreste, Ipla, Ordine degli Agronomi forestali, Uncem, Consorzi e Associazioni forestali locali, rappresentanti delle imprese riunite nelle principali Associazioni di categoria.
Ma per fare che cosa? Come annunciato dalla Regione Piemonte, sono almeno quattro i fronti sui quali agire: delimitare le aree effettivamente percorse e analizzarle dal punto di vista dell’uso del suolo (aree forestali, pastorali, arbusteti…), del regime di proprietà (comunale o privata) e della funzione prevalente (es. produzione, protezione,…); valutare il danno arrecato alla vegetazione forestale (severità), che dipende da molti fattori (intensità e durata del fuoco, specie forestale, etc.); definire criteri e priorità per le azioni di ripristino e prevenzione selvicolturale in base a una serie di criteri quali la severità del danno, l’eco-servizio fornito dal bosco, l’accessibilità, la probabilità di ripercorrenza da incendio negli anni a venire e l’opportunità del ripristino.
Uncem garantisce il suo impegno e il pieno coinvolgimento, informativo e operativo, dei Comuni montani e delle Unioni montane di Comuni. Questo documento è un primo draft contenente proposte e indicazioni.
Può essere ampliato grazie a una condivisione di impegni e buone pratiche che la Delegazione piemontese dell’Uncem auspica, sotto l’egida della Regione Piemonte e anche del Mipaaf.