Centonovantacinque milioni di dollari. Nessuna opera d’arte del ventesimo secolo era mai stata pagata tanto. Il record precedente – 179,4 milioni – apparteneva a “Donne di Algeri”, olio su tela di Pablo Picasso. Il nuovo primato appartiene a “Shot Sage Blue Marilyn”, ritratto della celebre attrice americana dipinto nel ’64 dal re della pop art, Andy Warhol. L’opera è stata battuta da Christie’s e aggiudicata in appena quattro minuti: sicuramente hanno inciso la beneficenza connessa all’acquisto – l’intero ricavato sarà destinato alla Thomas and Doris Ammann Foundation di Zurigo – e il valore dell’artista e delle sue icone – non solo Marilyn: anche Che Guevara, Elisabeth Taylor, Elvis Presley, Brigitte Bardot, ma su tutto c’è l’eternità di un mito, la forza di un personaggio senza eguali.
Era bellissima Norma Jeane Baker, passata alla storia Marilyn Monroe, e la perfezione sensuale dei tratti fu riscatto e condanna: le permise di uscire dalla povertà malinconica di un’infanzia divisa tra affidi e orfanotrofi – mamma Gladys aveva problemi psichici e difficoltà finanziarie -, da un matrimonio precocissimo e da un lavoro modesto, regalandole il successo sulla passerella e poi sul set, fino a eleggerla star di Hollywood, poi diventò prigione, disperato bisogno – e quindi affanno, ansia, sofferenza – di dimostrare che la chioma biondo platino avvolgeva un cervello, che non era solo una bambola, che era attrice e non attricetta. Forse per quello è immortale, perché la fragilità interiore, affiorata nelle pieghe del successo e debordata dopo la morte tragica, ha svelato una personalità labile e incompresa, una felicità superficiale, urlando che il make up marcato e i vestiti attillatissimi appartenevano solo a una maschera. C’è una frase che amava ripetere: «Puoi togliere una ragazza dalla provincia, non puoi togliere la provincia da una ragazza». E lei si portava dietro le insicurezze e il vuoto di bambina e adolescente triste, bisognosa fino all’ultimo respiro di trovare amore e pace: i suoi occhi, tra pellicole e poster, quadri, foto e serigrafie, seducono perché bellissimi e commuovono perché “laghi di tristezza”. In vita era glamour, sorriso, curve, leggerezza: la morte ha portato a galla disperazioni e ferite, i traumi di troppi strappi affettivi e il Trauma di una violenza sessuale subita poco più che bambina, l’eccesso di tranquillanti e non solo di champagne, il dolore di tanti aborti spontanei che hanno negato una maternità cercata con il cuore, la tortura di non sentirsi mai appagata. A John Kennedy mandò a dire che non gli era mai importato fosse presidente degli Usa, che l’aveva affascinata l’irraggiungibilità: «Volevo perdere. Volevo ferirmi a morte e ce l’ho fatta».
Molto racconta, in questi giorni, il docufilm Netflix che propone, attraverso nastri inediti, un ritratto originale tra pubblico e privato dell’attrice, riflettendo, non solo scavando, su una vita luccicante d’oro falso e su una morte che la tramuta in leggenda e conserva, dopo sessant’anni, un alone di mistero. Al di là del complottismo, dei sospetti, delle teorie su un omicidio, resta il dubbio sull’errato dosaggio di barbiturici – voluto per dire addio al mondo oppure accidentale? – e trova appigli l’insabbiatura dettata da legami con i potenti. Aveva 36 anni soltanto: non era Marilyn, baciata dalla gloria, ma Norma mai sfuggita alla tristezza.
Icona senza tempo
Dal ritratto di Warhol, vendutoper 195 milioni di dollari, al docufilm Netflix sui misteri della morte: sessant’anni dopo, Marilyn Monroe continua a essere amata. Per la bellezza che fu riscatto e condanna e per la fragilità che si trascinava da bambina