Incontriamo Selene Gandini grazie a una fortunata coincidenza. Anche lei si trova in Piemonte e così ci invita nella sua vecchia casa di famiglia, a Refrancore, nel cuore del Monferrato, tra le vigne, i pioppi e i noccioli. «È il mio luogo dell’anima, dove ci riuniamo con tutta la famiglia e dove torno ogni volta che devo ricominciare a camminare. È stato fondamentale dopo il lockdown».
È vero che producete anche il vino?
«Sì, Barbera, Grignolino, Freisa. E presto anche il Ruché».
So che è una buongustaia. Che rapporto ha con il cibo e con il suo corpo?
«Con il cibo, ottimo. Mi concedo volentieri qualche strappo alla regola, senza sensi di colpa. Con il mio corpo, dialogo. Non sono vanitosa e non ho grandi problemi. D’altra parte, il teatro è corpo e non posso certo mettermici contro».
Ecco, veniamo al teatro. La sua formazione è molto debitrice alla clownerie che ha studiato a Parigi secondo il metodo Lecoq. Come coniugherebbe corpo-maschera e verità?
«Rispondo raccontando la mia esperienza come insegnante di teatro ai ragazzi. Dopo il lockdown, ormai abituati a usare la mascherina, ho messo loro in mano la maschera di Lecoq e li ho condotti nel mondo della clownerie, facendo in modo che il clown, abitandoli, facesse loro scoprire verità nascoste di loro stessi e che loro, viceversa, lo prendessero per mano e si pacificassero, ciascuno, con il proprio “joker”».
E durante il lockdown non avete interrotto il rapporto.
«Lo abbiamo mantenuto via Zoom creando un cortometraggio in cui mettevano in scena la loro storia legata a una linea, la linea gialla, ovvero la distanza che si è creata tra noi. Una distanza non solo legata alla pandemia ma a ciò che rappresentava per ognuno di loro».
E cosa è venuto fuori?
«La distanza dal mondo delle informazioni, soprattutto sul Covid. E poi la distanza da loro stessi, cioè guardarsi allo specchio e non piacersi».
A proposito, qual è il suo rapporto con lo specchio?
«Lo specchio è uno strumento importantissimo oltreché una metafora della vita, ma non va subìto da narcisisti. A me piace l’idea di attraversarlo, di andare oltre, come Alice. Nei miei spettacoli è spesso presente».
Infatti, due grandi specchi a figura intera sono parte fondamentale della scenografia del suo recente lavoro dedicato a due divine della scena, Sarah Bernhardt ed Eleonora Duse, “Una camelia per due”, dove recita assieme a Caterina Gramaglia. Com’è nata l’idea?
«Sempre durante la pandemia, in macchina, al telefono. Dico a Caterina, mia socia in KinesisArt, l’associazione di promozione dell’arte e degli spettacoli dal vivo, che sto leggendo documenti vari su Sarah e lei mi dice che sta facendo altrettanto con la Duse. Detto, fatto. Ho scritto il testo e, appena è stato possibile, abbiamo cominciato le prove nel suo garage».
Com’è stata l’accoglienza del pubblico?
«Molto incoraggiante. Siamo in attesa di conferme per le prossime piazze, dopo il debutto al Teatro Altrove di Roma».
Quando ha deciso di fare l’attrice?
«Mai. Mi ci sono ritrovata. È stato un gioco sempre più bello, un’esplorazione continua che procedeva un po’ alla volta, fino a diventare parte integrante della mia vita. Ho cominciato molto presto, a 10 anni, frequentando la Quinta Praticabile, una scuola di Genova, e grazie alla mia prima maestra, Modestina Caputo, a 13 anni ho conosciuto Giorgio Albertazzi».
Che appena terminato il liceo la volle con sé nel suo primo ruolo ufficiale, Jessica ne “Il mercante di Venezia”, a cui ne seguirono molti altri. Che ricordo ne ha?
«Lo ricordo con immensa gratitudine. Dopo Modestina è stato il mio primo Maestro. Entrambi sono tuttora punti di riferimento importanti, mi hanno insegnato rigore e disciplina e mi hanno trasmesso l’idea che il teatro sia un gioco serissimo».
Si è mai pentita?
«Tutti i giorni. È che dentro di me convivono tanti stimoli diversi, sono un’entusiasta. Per esempio, vado un weekend a Dublino e mi viene voglia di restarci e magari aprire lì un negozio di fiori…».
Ma poi?
«Poi eccomi qua».
Qua ma anche in tv e al cinema. Vorrei chiudere con una riflessione su “Rosso Istria”, il film diretto da Maximiliano Hernando Bruno dove ha interpretato una figura realmente esistita, Norma Cossetto, studentessa istriana rimasta vittima a 23 anni della violenza dei partigiani jugoslavi, nel 1943…
«Un film che ha portato allo scoperto una parte di storia soffocata, messa a tacere. Per me, un viaggio faticoso e doloroso che mi ha insegnato che il male, purtroppo, abita nell’uomo indipendentemente da etichette, colori, ideologie. E che siamo fatti di ombre e di luce, al di là di qualunque strumentalizzazione».
Come si è avvicinata al personaggio?
«Sono partita prima verso l’Istria per conoscere e camminare nei luoghi dove Norma è vissuta, ho incontrato uno dei suoi ultimi cugini».
Metodo Stanislavskij?
«No, l’ho fatto solo per rispetto nei confronti dalla donna che andavo a interpretare».
Nel cast c’era anche Geraldine Chaplin: avete legato?
«Non avevamo scene insieme ma ci siamo incontrate ed è una persona dolcissima».