Il nuovo romanzo di Mauro Corona – “Quattro stagioni per vivere” (Mondadori, 2022) – è fresco di stampa, ma svetta già in cima alle classifiche. Il “poeta del legno”, ancora una volta, ha raccontato una storia universale. Il protagonista, Osvaldo – ovvero l’uomo che è braccato da due feroci (e stupidi) cacciatori per essersi appropriato del camoscio da loro ucciso con l’unico intento di preparare il brodo alla madre morente – è un po’ tutti noi. È la rappresentazione di ogni uomo e di ogni donna che, in preda alla paura, fugge e, nella fuga, riscopre sé stesso.
Corona, quanto c’è di lei in Osvaldo?
«“Madame Bovary c’est moi”: sono io Osvaldo. Tutto ciò che ho scritto appartiene a me. Del resto lo aveva già detto Borges: uno nasce e fa il pittore, il musicista, il contadino, il carpentiere oppure il fabbro e, alla fine, scopre di non aver fatto altro che… il ritratto di sé stesso».
Un’autobiografia, insomma.
«Tutto è autobiografia, qualsiasi cosa ci si inventi è autobiografia. Dentro ogni cosa che si fa c’è una parte di sé stessi».
Anche nei libri dove emerge la violenza, quindi, c’è un racconto di lei?
«Non ho mai ucciso nessuno, se non qualche camoscio… Ma potenzialmente potrei essere lì dentro. Tutto quello che scriviamo o facciamo ci rappresenta. Pure il modo di camminare è una rappresentazione di noi. Questa è la verità».
Osvaldo, braccato dai cacciatori, si rifugia nella natura. È il nostro porto sicuro?
«Il mio lo è sicuramente. Questa percezione, chiaramente, cambia a seconda del contesto nel quale si nasce, si cresce e si invecchia. Uno di Milano, probabilmente, avverte la natura nell’archetipo che lui fu quando crearono l’uomo e poi quando l’uomo si alzò in piedi…».
La natura fa parte di noi.
«È nel nostro Dna, nella genetica. Nella biologia umana c’è la natura, anche se, come dimostrano tanti esempi, abbiamo fatto di tutto per allontanarla da noi…».
Siamo così distruttivi?
«È una questione di volontà individuale, ma anche di sopravvivenza. Io, ad esempio, ho avuto la fortuna di vivere ad Erto, il paesino “ripido”. Non andrei a New York o a Londra nemmeno se là mi potessero dare il Premio Nobel…».
Perché?
«Solo nel ripido riesco a conservare l’equilibrio…».
Come fa?
«Ci sono tre tipi di equilibrio nella Fisica: quello stabile, quello instabile e quello indifferente. L’equilibrio instabile è quello della boccia buttata sul biliardo che si ferma dopo aver esaurito la sua forza. L’equilibrio stabile è quello del campanile. L’equilibrio indifferente è il nostro, quello degli esseri umani…».
Ovvero?
«Ci troviamo sulla Terra e abbiamo una data di nascita e una di morte. In mezzo, c’è da mantenere l’equilibrio. Però, ogni tanto, come diceva un vecchio rabbino, beviamoci qualche buon bicchiere… (ride, nda)».
Stiamo rimediando con la natura?
«Quando mettiamo un vaso di gerani sul balcone, inconsapevolmente, stiamo cercando di recuperare quel Dna che abbiamo annientato. Il Bosco verticale di Milano ha la stessa logica».
Parlava di equilibrio. I giovani ci sanno stare?
«Non voglio più sentire dire che i giovani non sanno nulla, che sono dei fannulloni: queste non sono altro che nostalgie di vecchi imbecilli come me. I giovani sono molto meglio di noi».
Ce li descriva.
«Sono preparati, sanno le lingue e sanno usare la tecnologia. E poi hanno fantasia e pure capacità imprenditoriali».
Ha un consiglio per loro?
«Non pensate al posto fisso, cambiate lavoro, provate, abbiate coraggio, avventure, pazzia. Come fa un ragazzo di vent’anni a impiegarsi in un Comune o in un ufficio e restare lì fino a oltre 60 anni? È una follia…».
Siamo ad Alba: qui i giovani di qualche generazione fa hanno dovuto fare i conti con la malora…
«Lo so, è la terra di Fenoglio e Pavese e quando capito da queste parti vengo rapito dai paesaggi, dalle colture – noccioleti e vigneti su tutti -, dalle culture. C’è un però…».
Quale?
«Se troppi volessero correre senza briglie, solo per fare soldi, si rischierebbe di restare con il paesaggio e nient’altro…».
Idee e contenuti, per fortuna, non mancano.
«Prima di oggi (l’incontro è stato organizzato dall’Assessorato al Turismo del Comune di Alba con Banca d’Alba e Collisioni, nda) ero già stato a Barolo per il festival. Un evento molto bello, a partire dal nome, che va inteso nell’accezione positiva del termine, ossia una collisione di idee, progetti, modi di vivere e pensare. Poi conosco l’Alta Langa…».
Domenica 19 giugno sarà a Bosia, al Premio Ancalau, in dialogo con Oscar Farinetti…
«Con Farinetti si può solo dialogare a suon di bottiglie… Scherzo, è un uomo che si dà da fare e sa intraprendere bene».
E allora di cosa parlerete?
«“Restanza e Tornanza”: ci saranno i sindaci dei piccoli comuni. Se sarò ancora vivo, parleremo di cosa voglia dire abitare nei borghi…».
Un’anticipazione?
«Premesso il fatto che ci sono monti ricchi – in cui nevica “firmato” – e monti poveri – in cui, se cadi, ruzzoli fino a valle -, vivendo in questi luoghi si impara una cosa: da una cima si può soltanto scendere. Le persone che ci abitano devono capirlo e imparare a collaborare tra loro, a prestarsi vicendevolmente il lavoro senza ricevuta di ritorno…».
Cos’altro dicono i monti?
«Le montagne sono le stesse ovunque, la sofferenza della gente idem: è la stessa su ogni montagna. Per questo, quel poco che mi resta da vivere lo trascorro a casa mia».
Qualche fuga, come questa nelle Langhe, se la concede.
«Solo quando non ne posso più di vedere le stesse cose, di vedere le stesse persone che bevono lo stesso vino nello stesso posto da 70 anni».
Ma poi torna…
«Certo, le radici sono come un elastico!».
E allora come rompe la monotonia?
«Dando colore alla vita, donando e ricevendo energie. Solo così le cose cambiano aspetto».