Ogni racconto di Bruno Murialdo contiene al suo interno tante storie, come in una sequenza di scatole cinesi: da un lato il territorio con le sue peculiarità, dall’altra la gente con le sue esperienze immortalate in scatti in bianco e nero. Si me­scolano e intersecano, portando a galla narrazioni diverse. Lo spunto per raccontarle è il suo ultimo lavoro “I paesaggi del vino e del cielo” (Edizioni Langhe Roero Mon­ferrato), poetico reportage fotografico – ristampa di un precedente lavoro ampliato con nuovi scatti – che narra il territorio e le persone che lo vivono, trasformandolo in memoria storica.

Nato a Genova, Murialdo considera da sempre la terra di suo padre, originario di Gor­zegno, la “sua” terra. Ha ap­pena 3 anni quando, nel 1955, la famiglia emigra in Cile per costruirsi una nuova vita dopo la guerra. La nostalgia, però, è tanta e nel ‘62 la famiglia torna in Italia, in Alta Langa. Il viaggio è la scintilla: Murialdo si innamora della fotografia e ottiene dal padre la sua prima Kodak. Da allora non smetterà più di fotografare. Ad Alba, nell’hotel Savona di Giacomo Morra (tra i primi a intuire le potenzialità del territorio), conosce il fotografo Aldo Agnelli e ne diventa allievo. La strada è in crescendo: nel cuore ci sono le Langhe, di cui dagli anni ’70 fotografa le metamorfosi, e nell’obiettivo l’Argentina, il Cile, Cuba, gli Stati Uniti, l’Europa, il sud Italia. Col­labora con svariate agenzie e case editrici, i suoi reportage su riviste e quotidiani nazionali e internazionali. Lavora con il regista Sandro Bolchi, lo scrittore Danilo Manera. Racconta Nuto Revelli, Rigoni Stern, Beppe Fenoglio.

Com’è la vita del fotografo, co­­sa vuol dire “fare” il fotografo?

«La fotografia è un pezzo di carta che racconta un attimo. È arte quando cogli un mo­mento particolare: lì diventa qualcosa di straordinario perché comunica un’emozione. Il lavoro del fotografo deve essere quello: cogliere il mo­mento della vita che scorre, non farla passare, fermarla il più possibile raccontando l’attualità che diventa storia subito dopo. Mi sono sempre considerato fotografo, ma dipingo e scrivo per i giornali. Accompagno sempre le mie fotografie con un racconto, dan­do spunti essenziali».

Viaggia ancora?
«A 55 anni ho smesso di fare tanti viaggi. Ho aperto il mio studio (Carpediem, ndr) con due ragazze. Una ora lavora in America mentre l’altra, Silvia Muratore, è rimasta co­me collaboratrice. Cerco di trasmetterle tutto il possibile. Oggi purtroppo la bottega classica non esiste più, il lavoro si è trasformato, i giovani aprono e chiudono le attività. Quindici anni fa portai avanti la battaglia “Salviamo le piccole botteghe” perché capii quanto poco interesse ci fosse verso l’arte dell’artigianato, in cui l’Italia eccelle. Il lavoro ma­nuale scompare perché la po­litica non è stata capace di da­re una continuità e salvare le botteghe come la mia, valore aggiunto per i paesi e il territorio».

Cos’è la Fondazione Radici per le memorie di Langhe, Ro­ero e Monferrato, di cui è ide­atore?
«Dieci anni fa ho cominciato a filmare storie, racconti di persone: anziani che avevano storie della loro vita contadina, la guerra, i partigiani, la­voratori, avventurieri. Avevo l’urgenza di farne qualcosa e, insieme con Marcello Pa­squero e Claudio Rosso, ci è venuta l’idea di creare la Fon­dazione Radici. Così abbiamo messo insieme enti e aziende del territorio. In circa tre anni la Fondazione ha prodotto tantissimo: due libri, incontri, il film “Un passo alla volta” per Confindustria, con Max Chic­co, e una serie di filmati sui personaggi che raccontano com’è nato il territorio. Siamo andati a sentire i produttori del Monferrato e dell’Ales­sandrino. Sto lavorando a un filmino poetico su Placido Ca­nonica, di San Benedetto Bel­bo, amico di Fenoglio. Cono­sceva mio papà e lo fotografai negli anni ‘70. La musica è di Walter Porro che ha firmato la colonna sonora dell’ultimo film di Salvatores. Tutto sarà messo online poco per volta».

Ci parla del suo nuovo volume?

«È un libro indirizzato al turismo, che vuole essere biglietto da visita per il territorio. Ci sono una serie di foto storiche di personaggi in bianco e nero arricchite da immagini di paesaggio con una luce ricercata. È un libro fatto di grandi effetti, di cui ho seguito la ristampa pagina per pagina (con il contributo di Unesco – Asso­cia­zione per il Patrimonio dei Paesaggi Vitivinicoli di Lan­ghe, Roero e Monferrato, ndr). Spe­ro che migliaia di persone al mondo possano vedere cos’è la Langa, la nostra storia, i castelli, i vi­gneti, le emozioni che crea».

Come si racconta il territorio ai giovani, come si “trasferisce”?
«Con la volontà di andarci dentro, di non fermarsi alle sole informazioni dell’ente turismo. Il territorio lo senti attraverso le voci delle persone che lo hanno vissuto. Gli anziani, un vecchio bottegaio, attraverso vecchie lettere e fotografie, la letteratura. Fe­noglio, Lajolo, la Romano, Arpino, nel bene o nel male, tra le righe raccontano co­m’era la vita. C’è poi il tessuto economico e tecnologico. Gran­­di aziende che han­no fat­to la storia come la Ferrero e piccole aziende, che lavorano in tutto il mondo, che raccontano molto bene cos’è quel territorio. Questa è una terra fortunata: c’è il settore turistico, l’agroalimentare, il vino. Ogni paese deve saper riconoscere i suoi punti di forza e valorizzarli».