«Scusi, ma lei è la figlia di quella Bonaccorti che faceva la radio?». È così che una domanda bruciapelo rivoltale per strada da una vecchia signora è diventata per lei «il complimento più bello». Ma d’altra parte Enrica Bonaccorti alla radio è arrivata giovanissima, molto prima di essere per milioni di italiani il rassicurante volto televisivo che garbatamente entrava nelle case intorno a mezzogiorno. Ed era arrivata con tanto di imprimatur: affiancando Alfonso Gatto, intellettuale, critico e soprattutto poeta, uno tra i più accreditati esponenti dell’ermetismo. Insomma non proprio cosette nazional popolari. Quello che emerge, buttando un occhio al denso e frastagliato ritratto professionale di questa attrice, autrice, giornalista e conduttrice, è la ricorrente dedizione alla scrittura, la passione per la parola, la scrupolosità con cui è perseguita e coltivata. La stessa che l’ha portata a scrivere testi di canzoni divenute celeberrime, la stessa che le ha permesso di firmare sceneggiati, documentari e reportage duri e impegnativi, la stessa che si sarebbe poi affrancata da forme altre di rappresentazione per diventare semplicemente scrittura, libera da vincoli e ottemperanze alle esigenze dell’immagine, dell’audience e del mercato. È del 2007 il primo di quattro romanzi, “La pecora rossa”, una bella storia di emancipazione femminile attraverso la lettura, fino al recente “Condominio, addio!”, edito da Baldini + Castoldi, sorta di prosieguo de “Il condominio”, del 2019.
Allora partiamo di qui, cioè dalla fine. Si può dire che siamo di fronte a un protagonista blasonato in cerca di anonimato?
«Certo, infatti nel libro precedente racconto di lui bambino che sulla strada maestra si sentiva invece attratto dai sentieri laterali, quelli che vanno a perdersi e che portano nei prati in cui sognava di piantarsi come un seme per non essere riconosciuto».
Un bel paradosso di questi tempi in cui tutti cercano la notorietà.
«Un paradosso, sì. Ma che a volte ci riguarda».
Ecco appunto: traspare un certo autobiografismo, non nel senso della cronaca ma nel senso che certe considerazioni non si possono fare se non si è compromessi.
«Mi ha smascherata anche mia figlia. Le mie amiche poi mi chiamano Eta Beta».
Come Francesco Maria Von Altemberger detto Cico che mangia banane farcite di noccioline americane così come Eta Beta adora la naftalina?
«Appunto, io intingo i toast con le alici nel tè. Anch’io come Eta Beta. Non mi piace il prosecco e nemmeno lo champagne ma non rompo le scatole a chi lo beve».
Io però parlavo di autobiografismo in un altro senso. L’ossessione per la grammatica di Cico è un po’ la sua, vero?
«Ecco, lì sono proprio io. Nell’ossessione per la grammatica e nell’idiosincrasia per certe espressioni».
Tipo?
«”Vuole che le dica la verità?”. Mi viene da rispondere “no figurati, te l’ho chiesto apposta per farmi raccontare una palla”».
Le viene o risponde davvero così?
«Quando sento un collega sbagliare un accento o fare un errore di qualche tipo non resisto: gli mando un messaggino per correggerlo».
E loro?
«Alcuni mi odiano, altri ringraziano. Mi ferisce la superficialità con cui alcuni affrontano questo lavoro. Noi parliamo a milioni di persone e il linguaggio è importante, così come la postura. Ci guardano anche i bambini e dobbiamo essere consapevoli che l’esempio è fondamentale».
“Le parole rappresentano o mistificano la realtà. O la ricordano”. È una bella frase di Cico: immagino sia anche questo repertorio originale dell’autrice.
«Le parole sono importantissime oltreché fortemente evocative: in questo senso la ricordano».
Andiamo avanti spulciando qua e là: “Non bussa mai, forse perché è un giornalista”: quanti sono entrati dalla sua porta senza bussare?
«Per le mie battute mi sono rovinata amicizie e carriera, ma il mio è un sarcasmo bonario, non c’è cattiveria. Il cinismo l’ho riversato in Cico. Io non ne sono capace».
Cico è anche (cito a braccio) un grande esperto per tutte le risatine inopportune che si trova a dover giustificare e non dice quasi mai la verità consapevole che “o hanno capito o non capiranno mai”: non le chiedo cosa pensi lei di certa diffusa perspicacia ma mi domando invece che cosa la faccia ridere.
«Le battute intelligenti, i tempi giusti. Non rido invece per i doppi sensi e sono convinta che arrivi tutto dal cervello. Mi chiedo invece se non siamo diventati troppo attenti al politically correct perché io, se fossi un comico, non saprei proprio cosa dire. Il problema è che non abbiamo una vera padronanza della lingua. Non leggere è un suicidio collettivo».
“Del denaro mi interessa soltanto averne abbastanza da potermene disinteressare”: le appartiene questo rapporto dégagé con il denaro?
«Non mi interessano le cose preziose, i gioielli, i vestiti. L’unico investimento che per me è importante è la casa, la mia cuccia, così come la voglio io, con i mobili di mia nonna e tutto quello che me la fa sentire mia».
“Speculare per guadagnare è volgare”.
«Io se comprassi un bicchiere a cinque euro e lo rivendessi a sette mi sentirei una ladra. Non sono portata per la finanza. Fosse per me tornerei al baratto, l’unica forma di commercio che posso capire».
Con la tecnologia è imbranata come Cico o se la cava?
«Sono felicissima di poterle inviare una mail in pochi secondi ma mi innervosisco facilmente. Sono impaziente».
Cosa la infastidisce di più nelle relazioni?
«I discorsi orecchiati, le opinioni senza fondamento, l’incapacità di ascoltare. Io parlo tanto ma quando ascolto qualcosa di interessante sto zitta».
Mi dica un’altra frase fatta che la disturba.
«“Tutto quello che ho fatto, lo rifarei”. Ecco: io non rifarei… mah forse la metà delle cose che ho fatto. E forse starei meglio».
“Più sono alte le aspirazioni più tolgono lucidità mentre ti lucidano l’ego”. Cosa intende esattamente Cico?
«Che a lucidarsi troppo l’ego si perde l’equilibrio».
Ecco perché ambisce all’anonimato. A lei però è andata ben diversamente. Mi vuole raccontare gli albori della vocazione d’attrice?
«Ero in platea in un piccolo teatro di Trastevere, e il regista, Franco Molé, disse che mancava un’attrice per la replica successiva. Io alzai la mano, come a scuola, e dissi “posso provarci io?”. Il gesto più importante della mia vita».
Frequentava l’Accademia?
«Me lo chiese anche lui. No, frequentavo il primo anno di Lettere».
E poi?
«E poi ci fu un’accelerazione. Mi vide l’amministratore di compagnia di Modugno, mi chiamò per un provino e mi scritturarono».
Per Modugno scrisse due canzoni che sono storia: La lontananza e Amara terra mia. Oggi chi è il nuovo Modugno?
«Nessuno assomiglia a Modugno. Però ho molto apprezzato la versione di Amara terra mia di Ermal Meta. E l’avrebbe approvata anche Mimmo. Me lo sento che dice “Questo è bravo forte”».