È cresciuto nel mondo della finanza, passando dall’università La Sapienza di Roma ai grattacieli del distretto finanziario di Canary Wharf a Londra. Ha visto da vicino i prodromi della globalizzazione, ne ha seguito ascesa e rovina. E nel suo ultimo libro racconta perché in fondo al tunnel può esserci una luce, come quella che ha visto nelle Langhe ogni volta che è venuto da queste parti, accompagnando magari sua moglie Caterina Balivo. «Ho apprezzato l’attenzione che c’è per la terra – ci ha detto -. Si parla tanto di ecologia e secondo me niente è più importante, in questo senso, di un esempio come quello delle Langhe. Ovviamente è una zona fortunata, ma sono stati bravi gli uomini a renderla così, come non era un tempo. Sono ammiratissimo del modello Cuneese e per quello ci vengo ogni anno».
Può essere un modello da seguire anche per l’economia nazionale?
«Dovrebbe rappresentare un modello per creare nuovi distretti legati all’ecologia, alla natura e alla terra, così come è stato impostato il lavoro nelle Langhe e potrebbe esserlo in tante altre parti in Italia».
In generale, come andrebbe modificato il modello economico?
«Partiamo da qui: l’Italia potrebbe essere il miglior posto del mondo dove lavorare. Mi spiego: possiamo proporci come creatori delle scuole migliori e degli ospedali più qualificati, un luogo dove la gente da fuori venga a vivere con i figli. Grazie alla fibra, si ripopolerebbero zone desertificate negli anni, però non rovinate dall’urbanizzazione selvaggia. Siamo gli ultimi dove potremmo essere i primi. Si delocalizzeranno le persone, tutto quello che una certa crescita ha rovinato, ci porterà a tornare in quei posti ancora naturali».
Qual è il passaggio successivo?
«Serve una programmazione economica, che già questo governo sta facendo. Ma manca l’attenzione per l’ambiente. Ovviamente servirà tempo, si deve reinvestire nello stato, nella cura delle persone. In fondo il Pnrr è stato scritto così, quindi sono ottimista per il nostro paese. Ora è chiaro che l’impostazione degli anni ’60, tipo il polo chimico di Porto Marghera, era sbagliata. Ma possiamo riparare. Eravamo diventati un paese con industrie inquinanti, là dove invece abbiamo la bellezza».
Un po’ come la visione di Farinetti? Il sud e Roma sono potenziali parchi turistici?
«Sì, ma con un ulteriore passo avanti, perché poi non potremmo lavorare tutti nel turismo. Ma se tu sei a Pechino oppure a Shanghai, strainquinate, hai vinto con la globalizzazione, hai guadagnato, puoi far vivere bene la tua famiglia in Basilicata, sull’appennino tosco-emiliano o nelle Langhe. E così porti moltissima linfa al sistema: tu continui a lavorare, mentre io mi occupo dei tuoi figli e della tua salute. Ci vuole un investimento pubblico ad ampio spettro per un vero business-model, l’Italia come un ufficio a cielo aperto con servizi annessi: scuole, università, ospedali e ovviamente tutta la parte di svago e divertimento…».
Il vero smartworking?
«Esatto. Qui vieni per le mostre, i monumenti, il tartufo e il vino ma anche per vivere… No al turismo mordi e fuggi. Siamo un paese dove si vive bene tutto l’anno, ed è piccolo. Viaggi dall’Appennino al mare, a novembre vai nelle Langhe per il tartufo, prima per la vendemmia, poi vai a sciare. L’Italia è dove venire a vivere bene e a lavorare meglio, questa è la novità».
Draghi, in alcuni passaggi, è stato più keynesiano che liberista?
«Quando ha parlato di debito buono e cattivo, è stato un professore, una persona di cultura che ha capito come in questa fase sia necessario molto investimento pubblico. Sì, lì è stato keynesiano».
Perché è così importante il professor Caffè?
«Intanto umanamente, perché è stato un maestro, di quelli che crescono allievi e elaborano un pensiero. Ci ha messo in guardia, ci ha detto che senza stato non si va da nessuna parte, ha capito che stavamo distruggendo pezzi di piramide sociale. Non seguire la sua lezione ci è costato caro».
Non significa essere statalisti…
«Guardi, se il capitalismo non ha regole e non è guidato, genera profitto ma erode lo stato sociale in primis e quindi il pianeta. Non si tratta di essere keynesiani o liberisti, ma di prendere atto della situazione e di metterci mano».
Chi sono i Diavoli che racconta nei suoi libri?
«Non ne ho un concetto negativo, vengono dal principio di termodinamica secondo cui non puoi trasformare tutto il calore generando energia, c’è dispersione. I Diavoli (quello di Maxwell) mettono ordine. Io li chiamo monaci guerrieri, più o meno consapevolmente mettono mano in un mondo altrimenti destinato all’anarchia totale. Non funziona creare crisi e alimentarsi dalle stesse crisi, i Diavoli sono monaci guerrieri che governano l’Occidente da 40 anni nel bene e nel male».
Tutto è precipitato nel 2008?
«Sì, da allora le banche falliscono e gli stati si indebitano per salvarle, mentre le banche centrali stampano soldi per salvare gli stati. Con tecnologia e nuove piattaforme. Forse è un processo avviato dal 2000 o forse dal muro di Berlino, ma è nel 2008 che finisce un pezzo di mondo e ne comincia un altro».
L’era del denaro che non è più servizio, ma bene di valore?
«Chi ha utilizzato denaro per fare altro denaro, dovrebbe reinvestire in un circuito virtuoso, diverso dal fare soldi in maniera spregiudicata. Serve distinzione tra creare valore ed estrarre valore. La finanza deve puntare a crearne, a volte ha fatto confusione commettendo gravi errori».
Qual è il messaggio del libro?
«Un po’ di luce e un po’ di disperazione, perché abbiamo perso tanti anni in cui si è pensato solo a consumare il pianeta. Però c’è luce, vedo i giovani e sono ottimista, saranno loro a guidarci fuori dalla crisi. Ricordare però li aiuta ad avere una mappa per uscire da uno schema e abbracciarne uno completamente diverso».
E come la mettiamo con la guerra?
«È una conseguenza: prima Trump, poi la pandemia e la guerra: tutti sintomi di un mondo in fase sindemica, fra sofferenze, diseguaglianze, pandemia, differenze di educazione, senza pari opportunità che hanno portato a questo smottamento. Vedremo che cosa si costruirà sulle macerie. Io predico sempre ottimismo perché ne ho un disperato bisogno e lo trovo nei giovani. Hanno almeno capito che c’è un problema e che così non si può andare avanti».