Bello, bravo, colto e, vivaddio, non se la tira. Mauro Racanati fa parte di coloro che una volta si sarebbero detti “attor giovani”, qualcosa di più e di diverso di un generico attore di giovane età. Un bel talento su cui investire e che, in momenti di vacche grasse, se ancora il teatro esercitasse il peso che merita nell’economia generale, sarebbe un gettonatissimo Amleto, Romeo, o, perché no, il tormentato Osvald di Spettri di Ibsen, insomma un protagonista su cui scommettere, che non passerebbe inosservato.
Nato al teatro e perfezionatosi al Centro Teatrale di Santacristina fondato da Luca Ronconi, pugliese di nascita e di famiglia, vive a Roma e, come tutti gli attori, migra laddove il lavoro lo chiama.
Ora è a Napoli o meglio, frequenta sempre più spesso la tratta Napoli-Roma. Da un anno infatti fa parte integrante del cast di “Un posto al sole” (Upas per gli addetti) dove interpreta Riccardo Crovi, un medico che vive una complicata storia d’amore e passione.
Il suo personaggio, tale dottor Riccardo Crovi, vive una situazione sentimentale complessa. Un uomo tradito che prova di nuovo a scommettere sui sentimenti. Ci riuscirà? Si vince scommettendo coi sentimenti?
«L’amore è il motore di ogni cosa, da non intendere l’amore d’appendice, quello romanzato, ma quella forma di “stare nel mondo e nei fatti della vita” che tende a prendersi cura delle cose e delle persone in un modo differente, lontano dalla formazione sentimentale con cui siamo cresciuti. Quindi in questo senso Riccardo Crovi fa bene a scommettere sui sentimenti».
Quanto conta la fedeltà per Riccardo? E per Mauro?
«Anche la questione “fedeltà” è alterata da una forte influenza cattolica, per cui fedeltà si oppone a tradimento. Per me non è così. Non c’è opposizione. C’è anzi una rivalutazione dei parametri in cui fedeltà è anche fedeltà a sé stessi. Lo abbiamo visto chiaramente durante le puntate: c’è stato un momento in cui Crovi ha ceduto – il suo momento più frangibile – al ricordo del rapporto con la moglie, e in quello stesso momento ha chiesto a Rossella, sua fidanzata, un periodo di allontanamento proprio per ritrovarsi».
La fedeltà gioca anche nel rapporto tra attore e personaggio. Come la persegue?
«Come attore cerco di essere fedele non tanto a una verità probabile, ma a un ritmo interno che coinvolge l’umanità e la capacità di leggere il contesto in cui agisce quella stessa umanità. Da qui deriva quella caratteristica che io riscontro in Riccardo e anche in me: la fallibilitá. Come uomo e come attore la consapevolezza di essere fallibile mi porta sempre a partire e sentire la terra dove poter cadere. Il compito di un attore non è forse cadere?».
Un posto al sole vive di un cast collaudatissimo. L’hanno aiutata a non cadere o, nel caso, a rialzarsi?
«Alla grande. Mi hanno subito accolto e mi hanno aiutato a integrarmi».
Ho letto che parla del set come di una “lavatrice”: divertente immagine, me la spiega meglio?
«Il set è come una lavatrice che funziona splendidamente da ventisei anni; quando uso quel termine mi riferisco ad un ritmo produttivo che va molto veloce, in cui coesiste qualità e quantità, perché siamo un prodotto daily, andiamo in onda cinque giorni su sette, bisogna portare a casa le scene e farlo secondo lo standard richiesto dalla produzione. La redazione svolge un ruolo determinante, senza il loro lavoro, qualche pezzo sarebbe caduto. Sono straordinari».
Il suo personaggio viene dal nord: come si trova a Napoli? E lei, attore, come si è trovato a Napoli?
«Sono quasi sicuro di essere stato napoletano prima di vivere Napoli, la sento come parte integrante della mia vita, come se avessi sempre vissuto lì: non alludo alla napoletanitá pittoresca, folcloristica, ma alla famelica pulsione verso la vita, verso il corpo come mezzo del sentire. Napoli è una città contraddittoria, accoglie e diffida, ti ascolta e ti mette in dubbio, conserva uno spirito fortemente monarchico, ma nell’accezione comunitaria, non certo politica».
Una mia collega che segue la serie da anni dice che secondo lei tra le due (la ex moglie e Rossella) ne arriverà una terza. Il pronostico è azzeccato?
«Il pubblico di Upas è un macrosistema affascinante e straordinario. Quello che posso dire è che ha una struttura narrativa molto ancorata alla plausibilità».
Passiamo al cinema e in particolare al film “Il patriarca”. Mi dà un’anticipazione il più gustosa possibile?
«È una fiction che andrà in onda su Canale 5 diretta e interpretata da Claudio Amendola. Posso dirle il nome del mio personaggio: Vento».
Nient’altro?
«Sulla storia non posso anticipare nulla. Ma posso dirle che lavorare con Claudio per un attore è una fortuna. Ti lascia libero di trovare la tua chiave, ti ascolta e interviene quando necessario per trovare una quadra. È un capitano».
Dalla fine all’inizio: nel suo primo film, Noi siamo Francesco, interpretava un ragazzo disabile, senza braccia. So che si era avvicinato al problema attraverso una ragazza focomelica: mi racconta un aneddoto?
«Che ragazza fantastica, due giorni con lei, e avevo dimenticato della sua (apparente) disabilità. Lei fa tutto con i piedi: qualsiasi cosa. Un giorno mi fa: “ … vengo a prenderti”, io credevo che si facesse accompagnare da una persona che guidasse. No. Guidava lei. Andai sul set per lavorare con lei che guidava un’auto collaudata per essere guidata con i piedi… insomma ho guardato avanti tutto il tempo. E poi sa parcheggiare meglio di me».
C’è un momento preciso in cui ha sentito quella che si chiama la vocazione?
«Io più della vocazione, ho sentito le urla disperate della vita che voleva affinare il cuore per sentire e sentirsi meglio».
Il teatro e la scuola: quanto conta una buona formazione?
«Io ho un percorso vastissimo fatto di incontri diversi: dai miei primi maestri della scuola russa a diciassette anni a Federico Tiezzi e Krystian Lupa, fino all’anno di Santacristina, il centro teatrale fondato da Luca Ronconi, che ha segnato l’inizio del mio essere attore “adulto”. Ho capito che la parola è “un modo del corpo di dire la scena”».
Quali sono i suoi punti di riferimento?
«Cambiano a seconda del periodo e della fase artistica che sto vivendo. Nel cinema rimarrà sempre Gian Maria Volonté, oggi ti dico che il lavoro teatrale di Valerio Binasco è ciò che si avvicina di più alla mia natura. Ecco, in Italia vorrei lavorare con lui. Tra i registi stranieri, Thomas Ostermeier».
Veniamo agli autori: ha frequentato sia classici sia contemporanei. Qual è stata l’esperienza più formativa?
«Sicuramente Jean-Luc Lagarce e Shakespeare. Il primo con “Il paese lontano” diretto da Samuele Chiovoloni: un lavoro delicato tra composizione drammaturgica della scena e (s)composizione della logica della parola. Su Shakespeare il lavoro su Amleto fatto con Krystian Lupa, lontano dalla parola e vicino alla relazione. Grazie a quell’ esperienza oggi posso dire di essere un “attore di relazione”».
Ci spieghi meglio.
«Un attore che mette da parte il proprio ego ma mette a disposizione la sua sensibilità, il suo ascolto a favore di un processo che favorisca il racconto della scena, della scrittura, e non della propria bravura. È un dialogo reale in cui quello che diciamo finisce per modificarci. Una relazione ha successo solo se lasciamo entrare l’altro da sé».
Come spettatore cosa sceglie?
«Al cinema non si può non vedere Paolo Sorrentino. A teatro seleziono moltissimo, e comunque anche qui a trainare è il regista o l’attore».
Anni fa recitò al Teatro Carignano di Torino con Re Lear diretto da Michele Placido. Che ricordo conserva?
«Ricordo perfettamente il modo in cui la voce si mischiava con il teatro. Zero fatica».