«Il rock? Una strada nel deserto che porta all’oasi». Così Cristina Donà, interpellata nel merito. E quindi «una salvezza, ma anche un’attitudine». Attitudine che lei, cantautrice accreditata fin dal suo album di esordio, “Tregua”, del 1997, vincitore della targa Tenco, ha coltivato e rinnovato nel tempo, attraverso contaminazioni e fitte collaborazioni in Italia e all’estero. In Inghilterra, soprattutto, dove calca, prima artista italiana, la Royal Festival Hall di Londra, invitata al Meltdown Festival. Era il 2001, due album all’attivo e dieci a venire, fino al recente “deSidera”, dello scorso anno, un titolo evocativo per un sospirato rilancio, uscito in piena pandemia e presentato in un tour che ha già toccato molte piazze.
Se la sente di fare un bilancio?
«Il bilancio è molto positivo, è stata un’estate affollata di eventi sia sul palco sia come spettatrice. Una piacevole “confusione” all’interno di una programmazione vasta e movimentata».
Eppure, stiamo attraversando un periodo difficile, in cui anche i desideri hanno dovuto prendersi tempo.
«La pandemia ha reso evidenti, nel bene e nel male, cose che già si sapevano. A cominciare dal fatto che l’arte non è un bene superfluo ma una necessità. Lo abbiamo avvertito nei concerti contingentati dove la gente partecipava in evidenti condizioni di disagio. Il desiderio di esserci nonostante tutto è stato un segno chiaro da parte di un pubblico che ha risentito del “fermo” e di un’atmosfera pesante per tanti motivi, politici e ambientali, che hanno inasprito i rapporti, generato prepotenza, prevaricazione».
Fin dove possono agire e aiutare l’arte e la musica?
«Possono restituire alle nostre vite ritmi più umani. Ma non si possono sostituire alla politica che purtroppo è sempre più lontana dalla vita reale. Io fatico a riconoscere una rappresentanza delle persone normali da parte dei politici. Non ne capisco le logiche, mi sembra anzi che la priorità non sia cercare una strada comune e soluzioni per tutti, ma anteporre ragioni e interessi di parte».
A meno di un mese dalle elezioni, quali sono secondo lei le urgenze imprescindibili?
«Scuola, sanità, clima, ambiente, energie alternative».
Non pensa che la lontananza della politica a cui faceva riferimento dipenda anche da un problema di comunicazione?
«Sì. Il linguaggio basico funziona di più, ha la meglio perché arriva diretto, è più crudo, animale. Ma non appartiene alla sinistra e la democrazia vive di un linguaggio più complesso e articolato che, a sua volta, presuppone un pensiero più evoluto».
Prima citava il clima. La questione ambientale le sta particolarmente a cuore. “Altro che aperitivo, ci siamo bevuti il pianeta”, infatti, è un verso di “Distratti”, prima traccia di “deSidera”.
«Una canzone che nasce da una visione: una coppia dentro un centro commerciale, persa nella smania di acquisti inutili, che poi finisce a fare l’aperitivo e uno dei due grida quella frase. Ho scritto questo brano poco prima della pandemia, quando invece si gridava “Milano non si ferma” e l’aperitivo è sempre stato simbolo di benessere».
Con il grido successivo, “gireremo un video mentre esplode il pianeta” si allude invece alla soggezione esasperata alla tecnologia.
«L’idea mi è venuta leggendo il libro di Pietro Trabucchi, “Opus”, in cui si parla di auto-motivazione anche in rapporto all’uso che facciamo della tecnologia e soprattutto di chi ha interesse a manipolarci portandoci a vivere in modo superficiale, in cerca di un like e di soddisfazioni brevi che dobbiamo continuamente rinnovare. La verità è che abbiamo perso la capacità di aspettare, di prolungare il tempo dell’attesa e questo crea un’eterna insoddisfazione».
Ma la “colpa”, come lascia intendere nel brano omonimo, è soltanto nostra.
«Un brano che parte da una riflessione personale su un mio modo di agire. Succede spesso, di fronte a qualcosa di imprevisto o di spiacevole, che invece di cercare di capire i meccanismi psicologici che ci fanno reagire in un certo modo, si cerchi una colpa esterna, un capro espiatorio, scorciatoie che ci facilitino la vita. Succede nelle cose piccole, quotidiane, come in quelle più grandi, nella politica sembra quasi la regola».
Un atteggiamento che non agevola le collaborazioni, che invece segnano tutta la sua carriera. Butto lì qualche nome e le chiedo due battute: Manuel Agnelli.
«È stato fondamentale nell’assecondarmi senza snaturare il mio modo di scrivere e di raccontarmi; grazie al suo contributo produttivo, al marchio rock, ho potuto presentarmi con un’impronta musicale definita».
Davide Sapienza.
«Mio marito, scrittore e giornalista musicale, conoscitore della scena milanese dove ho cominciato, mi ha segnalata fin dall’inizio».
Ginevra Di Marco.
«Un’amicizia che dura da una vita. L’ho conosciuta prima ancora come artista e mi aveva subito impressionato la voce e la presenza scenica. L’idea di fotografare in un disco e un tour la nostra amicizia è stata di suo marito».
Saverio Lanza.
«Un musicista e un amico con cui collaboro da anni, con una visuale sulla musica a 360 gradi».
A proposito di “deSidera” avete parlato di “elettronica primitiva”. Cosa significa?
«L’espressione è di Saverio. Io sentivo il richiamo forte dell’elettronica e gli ho chiesto di trovare una forma adatta. “Primitiva” indica l’elettronica basica, anche un po’ rude. Nonostante l’album sia molto articolato, tutt’altro che preistorico…».
A cura di Alessandra Bernocco
«Desideri e arte per una vita a ritmi più umani»
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